Non ce la faceva più. Troppo caldo e ogni speranza di rimonta ormai vana. Prese il pallone e corse in cortile. L’unica soluzione che trovò fu quella di salire sul muretto: era sicuro di riuscirci. Bastava saltare e incornare la palla in rete, Burgnich non ci sarebbe mai arrivato. Dopo il gol tutto sarebbe stato più facile: correre come un pazzo per il campo-cortile, prendere a pugni l’aria, farsi travolgere dalla gioia dei compagni, farsi portare in trionfo, entrare nell’eternità. Si arrampicò sul muretto, lanciò il pallone a un metro sulla sua testa e con un salto prodigioso, tra la potenza dell’aquila e la leggerezza del colibrí, incornò in rete. Albertosi ad allungarsi, Burgnich incredulo, lo stadio e il mondo in delirio. Una, due, tre, cento volte. Quel pomeriggio caldissimo del 1970 il bambino nato nelle nebbie della bassa padana, aveva imparato a volare.


Il mio amico cerca di descrivere l’odore di alcool. O meglio, l’odore di   combustibile tratto dalla canna da zucchero che si usava al posto della benzina. La città ne era impregnata. I suoi venti milioni di abitanti non se ne accorgevano più ma lui, appena arrivato, sí.  Non si ferma il mio amico, continua a raccontare le sue impressioni. Trent’anni fa, dice, quando arrivò, c’era una situazione economica disastrosa, con l’inflazione al 90% al mese, il denaro che ogni valore in questione di ore. Si andava al bar e si pagava con gli assegni…
Tutte storie vecchie già ascoltate  mille volte, che so a memoria, ma oggi decido di starlo ad ascoltare, poverino, il mio amico, quando si lascia prendere dai ricordi diventa malinconico, rispettiamo allora la sua barba bianca, la sua pelata francescana, la sua labirintite cronica: ci sediamo sulla panchina, ha male alla schiena.

Riprende a parlare: in quel tempo per avere una linea telefonica esistevano due possibilità, o entravi in una lista di attesa che durava anni, o la pagavi al mercato nero tremila dollari. Sí, tutto era calcolato in dollari, il nostro denaro non valeva niente…

Racconta. Racconta. Racconta di quando entrò per la prima volta in una favela. I topi morti, i topi vivi, le pustole, la gente che moriva di fame, la fila interminabile dietro il camion della carità che portava i viveri. Racconta di quando ascoltò il samba suonato come non lo aveva mai sentito e neanche immaginava possibile che si potesse suonare in quel modo. E il carnevale, quel ritmo indiavolato capace di far ballare anche un forchettone come lui. Racconta di quando entrò nelle miniere d’oro, quando vide la foresta, il suo stupore davanti alle cascate. Racconta di quando diventò un guerriero, passò la notte nel villaggio degli indios Guaraní per la cerimonia di iniziazione, aspirò il fumo degli xapiri, gli spiriti della natura, e gli fu affidato un nuovo nome, un nuovo battesimo: divenne un guerriero. Racconta, il mio amico racconta, di sua figlia piccolina quando la portava a lavorare con sé in quella favela dei topi morti, dei topi vivi, delle pustole, del camion dei viveri, affinché sapesse che il mondo andava oltre.

Racconta della città mostruosa, dei bambini di strada, di tutti quelli che sono scomparsi nel nulla, ma anche di chi è riuscito a sopravvivere e che ogni tanto incontra ramingo. Racconta della varietà e della offerta di eventi e cultura accessibili a tutti, la città enorme a volte madre amorosa e spesso terribile matrigna e il traffico di sette milioni di macchine che ogni giorno ne intoppano le strade. Dice il mio amico che dal diciannovesimo piano di casa sua si può vedere la sopraelevata perennemente intasata. Parla, e parla di un mare stupendo con onde  da sogno… E cambia argomento, incoerente como solo lui sa esserlo. Passa dal mare alla politica, dalla storia epica di Lula alla bolsonariana tristezza contemporanea. Ecco che si inalbera, si infiamma, rosso in faccia e nell’anima e come in un vecchio slogan di tanti anni fa parla di fascisti, di carogne e di fogne alle quali bisogna che ritornino. Poi però contento mi dice che oggi la Corte Suprema, dopo una lunga sessione durata un mese, ha deciso che nessuno può essere dichiarato colpevole fino a quando non si esauriscano tutti i ricorsi processuali previsti dalla legge e che quindi il suo Lula può essere liberato oggi stesso. Cambia argomento, il mio amico, adesso descrive la bellezza della città di Santos e della sua mitica squadra di calcio che vide “o Rei”, Pelè, fare magie. Come quella volta nel 1970 durante la finale dei mondiali contro l’Italia. Il suo gol su un passaggio di Rivelino, un salto da leggenda con la forza dell’aquila e la leggerezza del colibrí, Burgnich attonito e Albertosi battuto. La gioia incontenibile nel cortile diventato il campo dello stadio Azteca di Città del Messico…


Il mio amico si confonde, poverino,  non si ricorda più che vive a São Paulo da trent’anni e che non è più un bambino che sognava Pelè e il Brasile. Ecco che si alza dalla panchina e comincia a correre come un pazzo, salta, aquila e colibrí, e incorna un pallone inesistente. Quel bambino nato nella bassa padana tanto tempo fa, oggi continua a volare.

La redazione italiana di Pressenza desidera fare gli auguri al nostro corrispondente da São Paulo per questi 30 anni passati in quel meraviglioso paese.