Essendo persona con disabilità sono soggetta a frequenti, nonché costosissime, verifiche da parte della Commissione Patenti Speciali.
Funziona così: ci mandano una lista di esami da fare che ci dobbiamo pagare personalmente; poi ci sono almeno tre bollettini più la marca da bollo: insomma ci va bene se ce la caviamo con cinquecento euro. A volta, ovviamente.
Bisogna prenotarsi cinque mesi avanti, ma siccome ci rivoltano come calzini sembra di fare la caccia al tesoro per procurarci in tempo tutta la documentazione necessaria per la visita successiva.
L’ultima volta mi avevano chiesto anche una visita psichiatrica – vedi mai che alle volte invecchiando potessi essere diventata anche scema – e poi hanno avuto da ridire perché non era stato lo specialista che mi ha in cura ad avermela fatta: ma per forza, non sono in cura da nessuno, per cui mi sono rivolta al primo psichiatra e gli ho chiesto di controllare se per caso non fossi pazza senza essermene accorta.
Poi ci concedono di continuare a vivere – perché questo rappresenta la patente per gente che ha scarsa mobilità o che non ce l’ha più per niente – in genere per un anno, ma può capitare anche solo per sei mesi.
Quindi qualche mese, o settimana, di tregua durante i quali si assapora la gioia inebriante di essere liberi di andare dove ci pare e poi si ricomincia a doverci dare da fare per raccogliere tutta la documentazione per la visita successiva.
Il giorno dell’esame ci si fa tutti belli, le donne truccate e si cerca di fare di tutto per sembrare normali. In realtà siamo terrorizzati: quelle inquisizioni ce le sogniamo la notte.
Ovviamente ore e ore su quelle pessime seggiolacce ad aspettare di passare le singole visite: una prova devastante!
Una volta davanti alla Commissione attenzione massima perché basta una risposta sbagliata e sei fottuto.
Per cui cerchi di somigliare il più possibile ad una sfinge. Guai se trapelasse quello che ti passa per la mente.
E soprattutto concentrazione. Perché Loro ti fanno le domande a tranello: come a me che l’ultima volta quando mi hanno chiesto poverina come facevo a sopportare il dolore alle caviglie ho risposto candidamente che stavo seguendo la terapia sperimentale a base di cannabis. Con un certo orgoglio anche: in fin dei conti mi sono offerta volontaria a fare da cavia. Anche se c’era poco altro da fare: con qualsiasi altro rimedio che avessi provato avevano funzionato, e anche molto bene per la verità, solo gli effetti secondari indesiderati.
Dopo essersi assicurato che la mia dichiarazione fosse stata anche messa nero su bianco, ed io sempre molto collaborativa gli ho mostrato il punto dove il cardiologo – con cui avevo in effetti avuto da discutere e che evidentemente si era preso la sua rivincita – aveva refertato che ero in cura con bedrolite, il medico capo della Commissione mi ha fatto sapere che lui la patente non me la rinnovava.
Stupitissima gli ho fatto notare che la percentuale di thc nel preparato che assumevo era dello 0,4 per cento e che perfino la legge Salvini ammetteva un tetto dello 0,6, ma non c’è stato verso.
Mi hanno spiegato che potevo tornare a casa (bontà loro!) guidando la macchina con cui ero venuta; che nei giorni seguenti sarei dovuta andare all’ufficio della motorizzazione (a Peretola, praticamente in capo al mondo!!) a riconsegnare la patente e che potevo riprovarci dopo sei mesi. E la spesa – ho chiesto – come faccio a farla?
A loro che io mangiassi o no non gliene importava proprio nulla.
È stato un inferno. In una quindicina di giorni ho perso peso fino ad arrivare a quarantacinque chili (di sera) e sono finita due volte in ospedale.
La mattina mi alzavo e cominciavo a cercare di organizzarmi l’esistenza: pietivo un piacere ad un’amica un altro a un buddista compiacente, a mio fratello che però aveva sempre da fare.
Per farmi accompagnare erano 25 euro a volta: dieci a andare, dieci a tornare e cinque di benzina.
Ovviamente rivolgendomi a volontari, che sono famosi per fare le cose quando fa comodo a loro. Come una che mi telefonò un giorno alle 6 di mattina annunciandomi tutta allegra che si era svegliata presto e che sarebbe arrivata di lì a poco.
Dopo che il mio medico curante fu venuto a casa mia rimanendo fino alle dieci di sera per convincermi a ricoverarmi perché così non potevo più andare avanti, decisi di riprendermi il controllo della mia vita.
Mi ero rivolta sì ad un’avvocatessa che si spacciava per paladina dei diritti delle persone con disabilità per i Radicali ma che in realtà si era limitata a mandarmi messaggi rassicuranti che lei stava cercando di fissarmi un’altra visita prima dei sei mesi, ma che trovava sempre occupato.
Grazie! i telefoni degli uffici che per un verso o per l’altro hanno a che fare con la disabilità servono solo per farle le telefonate, e son sempre cose lunghe: alla mamma, all’amica, al parrucchiere. Se quei brutti handicappati hanno bisogno, che prendano le gambe e vengano di persona. A rompere, sempre ovviamente.
Dopo infiniti tentativi finalmente mi risposero e fui molto chiara: così non potevo più vivere, ero agli arresti domiciliari, che se non mi davano la possibilità di dimostare che ero perfettamemnte in grado di guidare avrei fatto qualcosa di veramente clamoroso perché non avevo più niente da perdere.
Quando si decide fermamente qualcosa si trova sempre la persona giusta: incredibile ma vero, l’essere umano all’altro capo del filo mi riuscì non capisco ancora adesso come a fissare un nuovo appuntamento ad un solo mese di distanza dal precedente!
Dovetti portare la perizia di un tossicologo (300 euro) e una dichiarazione del medico del Centro di terapia del dolore che mi prescriveva il farmaco, e andarmela a prendere, ancora ovviamente, perché nell’uso del computer i medici ospedalieri si autolimitano al programma di scrittura.
Ritorno nel luogo orribile. Siamo al diciotto di luglio alle due del pomeriggio: un caldo orripilante, più dentro che fuori.
Nelle stanze dei medici si sta anche peggio, con le finestre dalla parte del sole e senza nemmeno uno straccio di ventilatore.
Sono cattivi da morire.
Sempre con la faccia da sfinge presento tutti i miei documenti che attestano che non solo sono perfettamente in regola con le leggi vigenti, ma che sono anche assolutamente in grado di guidare, e che oltre tutto sono anche piuttosto sveglia.
Sempre il capo commissione, quello della volta prima, mi guarda e mi fa: io la patente non gliela do. Ma non ha visto quello che è successo in questi giorni?
Penso, nonostante i quarantaquattro gradi: Oddio! che è successo? è morto Montalbano, anzi no Cammilleri.
No, sbagliavo, ma per fortuna l’avevo solo pensato, non detto. Comunque era successo che due cuginetti erano stati investiti sui gradini di casa da un automobilista ubriaco e strafatto di cocaina.
Sì, poverini – sempre penso senza dirlo – ma io che c’entro?
Si comincia così – tuona quello, che prende ad urlare contro quella “fronda” di colleghi “facinorosi” che prescrivono criminalmente droga.
Penso all’algologo, il dottor D. D. che è la mitezza fatta persona, al mio medico curante e a tutte le precauzioni che hanno posto in atto per ottimizzare la mia cura.
Penso a me stessa, alla persona che sono, stimata per il mio lavoro e rispettata perché sono la prima ad avere rispetto per me stessa, della mia salute prima di tutto perché ho bene imparato a conoscere quanto valga: io che non bevo, non fumo e per eccesso di zelo ho sempre rifiutato per principio tutte le sostanze che finiscono in -ina anche dopo gli interventi più dolorosi.
A me che ho avuto il coraggio e la forza di risorgere sempre e di ricostruirmi una vita dopo tutte le batoste, tante!, che ho subito negli anni.
A me che mi sfondo di ginnastica: tutte le mattine un’ora e mezzo appena alzata, spesso gridando dal dolore, ma ben decisa a vendere cara la pelle prima di finire definitivamente in carrozzina.
E a mia cugina, che alla minima bua corre in farmacia per ingozzarsi di codeina; al mio amico di Torino che prende le pasticche per dormire, quelle per svegliarsi, quelle per quando si deve concentrare per scrivere e quelle per quando vuole fare sesso. Tutta gente alla quale quando chiedono il rinnovo della patente nessuno dice niente.
Intanto il sanitario, piccato, continuava a proclamare che anche il Bedrolite è fuori legge – perché provocherebbe accumulo – invocando un recente parere del Ministero della salute, che essendo appunto un parere non fa legge.
Figuriamoci! a me lo veniva a dire, che adesso credo di essere la maggiore esperta in Italia sull’argomento. Potrei presentarmi al Rischiatutto.
Per farla breve, per riavere la patente per sei mesi, ma solo perché i colleghi presenti – le donne – si sono ribellati, ho dovuto impegnarmi a non prendere più niente da subito e a fare l’analisi del capello per la volta successiva.
Ora io trovo di una violenza inaudita costringere una persona col ricatto della necessità a privarsi di un aiuto farmacologico che possa alleviare la sua patologia, nonché a consentire ad un esame cui non sono minimamente obbligata e che lede il mio diritto di privacy.
Però, come spiegò proprio bene Fra’ Cristoforo a Lucia, che per timore dell’Innominato aveva fatto voto di castità e quindi non voleva più sposare il povero Renzo che si era dato tanto da fare per ritrovarla, le promesse fatte in stato di bisogno non sono valide di fronte e Dio, per cui ho continuato la mia terapia forte anche dell’appoggio del mio medico curante e del perito tossicologo. In fin dei conti rientro perfettamente nella legalità.
Naturalmente ho fatto la domanda per il prossimo esame nei termini, ovvero appena un mese dopo che me l’avevano ridata. Per brevità non sto a descrivere le traversie e i soldi che ho dovuto sborsare prima per annullare la patente, poi per riaverla: anzi ce l’ho in originale solo da pochi giorni.
Questa volta mi hanno detto di andare di persona a prendermi la lista dei documenti necessari.
Ritorno a Villa Fiorita – è una prerogativa di Firenze che tutta la toponomastica riguardante i luoghi di dolore o di pena evochi visioni impressioniste o pre raffaellite – e mi ridicono di aspettare, sempre sulle medesime seggiolacce.
Dopo un’ora e mezzo precise in compagnia di drogati veri, mi riceve un impiegato con gli occhi rossi e i jeans stracciati che mi dà del tu e si mette a schiacciare zanzare mentre mi parla – bestemmiando pure quando le manca. Uno spettacolo sinceramente disgustoso.
Ovviamente devo fare l’esame del capello – oltre a raccogliere un certo numero di certificazioni varie tutte molto fantasiose con le quali non capisco bene che cosa io abbia a che fare.
E devo andare in un posto che hanno deciso loro e ovviamente pagare di tasca mia. Non c’è scritto quanto, ma è invece specificato che l’analisi delle urine mi verrà a costare ottanta euro.
Sono andata a vedere in che cosa consiste, ed è un esame estremamente invasivo: mi tagliano tre ciocche di capelli alla radice prelevandole in tre punti diversi della testa. E lì non so proprio come andrà a finire se mi si toccano i riccioli!
Inoltre la pippì la dovrò fare in presenza di qualcuno, per evitare che mi sia portata da casa le urine di qualcun altro.
Per cosa poi? Mi troveranno positiva allo 0,4 per cento, come ho dichiarato io, come lo ha fatto il medico del centro antidolore e come ha confermato il tossicologo.
Devo dire che sono entrata in crisi e la mia determinazione ha vacillato: confesso che ho anche provato a non prendere più le gocce, che, ulteriore confessione, ho sempre segretamente pensato che non facessero niente e che altro non fossero se non un placebo, ma invece ho sentito un gran male e non camminavo più.
Per cui l’altra sera a letto senza cena e col pensiero di non sapere come fare ad andare in bagno sono tornata sulla mia decisione e ho scelto ancora una volta di vivere.
Ora sto cercando aiuto per far conoscere questa situazione assurda: mi faranno un’interrogazione, ma ci vorranno mesi per la risposta; avvocati che ci capiscano qualcosa non ne trovo forse anche perché non se la sentono; delle perizie e dei pareri medici abbiamo visto che se ne fregano.
Vorrei organizzare un’azione collettiva con altre persone con disabilità che abbiano per qualche verso problemi con la cannabis, ma non è semplice convincerle.
I giornali li lascerei eventualmente per dopo: una volta tanto vorrei risolvere il mio problema senza stressarmi a morte, evitando come al solito di immolarmi sull’altare della questione di principio, del caso emblematico etc.
Tanto poi succede come con l’aborto: una volta che avranno fatto la legge chi se ne frega di chi è stato penalizzato.
Purtroppo mi accorgo di essere nata in anticipo su tutto: ho fatto gli esami di terza e quinta elementare e pure l’esame di ammissione alle medie; l’anno che mi toccava la maturità è stato l’ultimo in cui si portavano tutte le materie e si facevano tutti gli scritti, compresa la versione dall’italiano al latino.
Fossi nata solo un anno dopo mi sarei evitata tanto stress e fatica.
Ma magari per mettere un po’ d’ordine in materia di cannabis terapeutica ci metteranno molto di più, soprattutto visto l’aria che tira politicamente parlando. Al prezzo di tanta inutile sofferenza.

Patrizia Moradei