Si parla molto dell’inquinamento nell’ambito urbano, ma recenti studi dimostrano che persino nelle zone più remote del pianeta la presenza di microplastiche e fibre non biodegradabili è in forte aumento.

Le microplastiche sono ormai presenti anche nelle nevi d’alta quota, nei ghiacci dell’Antartide e sui fondi marini, portate lì da venti, piogge e correnti oceaniche. Sorge spontanea la domanda se non siamo anche noi turisti ed escursionisti a esserne responsabili, in parte attraverso le fibre sintetiche sempre più diffuse nell’abbigliamento sportivo.

La rivista Montagne 360, mensile del Club Alpino Italiano che con i suoi oltre 320.000 iscritti è tra le associazioni più importanti d’Italia, dedica la copertina del suo numero di novembre a questo argomento. Si interroga e interroga le aziende produttrici italiane di abbigliamento e scarpe per il tempo libero, sui danni causati all’ambiente e alla salute personale dai tessuti sintetici e dai composti chimici utilizzati per rendere i capi impermeabili ma traspiranti.

Le fibre in poliestere, di cui il polietilene è il principale componente ricavato dal petrolio, rappresentano più del 50 % del mercato complessivo. Non solo la produzione di polietilene richiede quattro volte più energia rispetto al cotone, ma l’uso e il lavaggio dei vestiti libera delle particelle che si disperdono nell’ambiente, entrano nella catena alimentare e nel corpo umano. Un altro problema è legato ai composti perfluorurati (PFC) impiegati per rendere giacche e scarpe impermeabili. I PFC, oltre ad essere tossici, sono altamente persistenti nell’ambiente e negli organismi. La concentrazione media di questi composti nel sangue dell’adulto medio è 20 volte al di sopra del limite di sicurezza.

Il processo di conciatura del cuoio usato per confezionare scarponi consiste nello stabilizzare le pelli degli animali attraverso trattamenti chimici per impedirne la putrefazione e renderli resistenti ed elastici. Questi procedimenti comportano l’uso di cromo, solventi, resine e altri acidi, che finiscono nelle falde acquifere.

Cosa fare? Le aziende più sensibili si stanno muovendo da tempo per sviluppare delle fibre biodegradabili, come per esempio il Tencel della ditta tedesca Vaude, ricavato al 100 % dal legno, usato per l’interno dei pile. Le aziende dovrebbero puntare sulla durabilità dei prodotti e sul riciclo dell’usato, adeguando inoltre le loro produzioni a standard ambientali più elevati nelle materie, nelle filiere e nell’uso dell’energia.

Anche il consumatore però dovrà fare la sua parte, valutando se ha realmente bisogno di fare nuovi acquisti per seguire le mode con i loro colori sgargianti o se non può piuttosto riutilizzare i vestiti che ingombrano gli armadi. Secondo i dati dell’Agenzia Nazionale di Protezione dell’Ambiente USA, l’americano medio si disfa di 32 kg di abbigliamento all’anno e solo una piccola parte viene riciclata.

La moda è tra i settori industriali più inquinanti in assoluto ed è, per sua natura, storicamente in contrasto con la sostenibilità ambientale. Dobbiamo diventarne consapevoli: pazienza se raggiungeremo la vetta di una montagna portando vestiti “fuori moda”.