C’è troppa ideologia e poco senso della realtà nel domandarsi se ora che stravinte le elezioni sarà il nuovo capo dello stato, Alberto Fernandez, a dettare la linea politica; o non prevarrà invece quella della sua vice, Cristina Fernandez de Kirchner, già vice di suo marito e poi presidentessa, più che nota per il suo irrefrenabile temperamento, moltiplicatore d’una dichiarata e praticata inclinazione per personalismi e soluzione radicali.

La drammaticità della crisi argentina è tale da averle almeno finora imposto una drastica dieta oratoria. Che pone ulteriormente in risalto la cauta fermezza dei calibratissimi interventi del presidente eletto. I quasi 12 milioni e mezzo di voti raccolti (48 e spicci per cento) contro i 10 milioni e mezzo (40 e spicci per cento) dell’uscente Mauricio Macri confermano tanto la popolarità di Cristina e la solidità del suo zoccolo duro elettorale, quanto la capacità e il fiuto politico di Alberto Fernandez, autore di una riunificazione della tellurica galassia giustizialista che appena un anno addietro nessuno credeva possibile.

E’ un fronte che ha conquistato anche le amministrazioni locali più rilevanti, a cominciare da quella della provincia di Buenos Aires, di gran lunga la più ricca e popolata del paese, oltre alla maggioranza legislativa in almeno una delle due camere del Congresso nazionale.

Non sembra retorico né circostanzialmente accattivante il presidente eletto, quando dopo le inevitabili asprezze della campagna elettorale che comunque s’è svolta in modo sostanzialmente ordinato in un paese che precipitava verso la povertà e il rischio d’un nuovo default, ricorda anche agli avversari la necessità di misurarsi con la drammaticità e l’urgenza della crisi.

Persino prima di rivolgersi con una richiesta di disponibilità solidale a tutte le altre forze politiche e più ancora alla società civile, agli imprenditori, alla classe media che in misura rilevante non lo hanno votato, all’opinione pubblica tutta. Sapendo gli uni e gli altri che i prossimi mesi richiederanno sacrifici anche a quanti -e sono la grande maggioranza dei 45 milioni di argentini- già da tempo sono costretti a una rinuncia dopo l’altra.

Malgrado un indebitamento che ormai s’avvicina complessivamente al cento per cento del prodotto interno lordo (basti pensare ai 56 mila milioni di dollari presi in prestito stand-by un anno fa dal Fondo Monetario Internazionale), nelle casse del banco centrale le riserve sono al minimo. Inflazione e svalutazione hanno divorato il potere d’acquisto delle retribuzioni. Ventimila imprese, soprattutto ma non esclusivamente piccole e medie hanno chiuso per mancanza di credito. La produzione industriale è scesa dell’8,1% negli ultimi 12 mesi, quella dell’auto del 26,4%. La disoccupazione sfiora l’11%, la povertà si avvicina al 36%.

Recuperare tante energie perdute è un’impresa che non consente distrazioni e meno ancora rivalse o vendette. Non si vede molto spazio per una conflittualità tra i due Fernandez. Di sicuro non nel primo anno. Avranno entrambi piuttosto bisogno di alleati, a cominciare dall’ex ministro economico di Nestor Kirchner, Roberto Lavagna, terzo arrivato nella consultazione di ieri con qualcosa oltre il 6%.

Dovranno con ogni probabilità inventarsi come riuscire a tassare l’export agricolo, unica via percorribile per reperire rapidamente la valuta pregiata indispensabile alla contenzione della piazza e a un minimo di ripresa produttiva. Senza rinnovare lo scontro che nel 2008 paralizzò il paese per 129 giorni, avviandolo alla frattura sociale che ha prima consentito a Macri di sostituire Cristina alla Casa Rosada, ma poi travolgendone la fallimentare politica neoliberista con il voto di ieri.

Un vero e proprio programma del prossimo governo non si conosce. Quanto populismo conterrà lo vedremo. Ma leggerlo fin d’ora come sovranismo, è una semplificazione di maniera molto vicina allo stereotipo, al pregiudizio eurocentrico.

L’Argentina (l’America Latina tutta) si trova a dover coniugare una duplice realtà: la propria, determinata dall’incompiutezza dello sviluppo economico-industriale, dunque bisognosa di protezionismo (a cui -come vediamo già da qualche tempo- fanno ricorso persino le massime super-potenze), per sostenere occupazione e mercato di consumo interno; e quella della globalità contemporanea egemonizzata dall’economia finanziarizzata, da cui dipendiamo tutti. Non ha grande libertà di scelta.

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