Sono 1,65 milioni i tedeschi che attualmente dipendono dalle donazioni del cibo. Il numero, di persone richiedenti cibo, secondo Tafel, l’organizzazione tedesca che si occupa delle banche alimentari, è cresciuto del 10% e del 20% fra la popolazione anziana. Il numero delle banche alimentari è raddoppiato passando da 480 nel 2015 a 947 nel 2019 mentre il numero dei pensionati che rischiano la povertà in Germania entro il 2039 potrebbe alzarsi dal 16,8% al 21,6%.

L’organizzazione Tafel che opera a Marl, nel Nordreno Westfalia, era passata alle cronache l’estate scorsa per una polemica che l’aveva vista accusata di negare il cibo agli uomini soli senza cittadinanza tedesca. Ma la questione poi almeno a detta loro si era dimostrata di natura ben diversa, “Il problema in realtà è che non abbiamo fondi e generi di sussistenza sufficienti” aveva dichiarato all’epoca la direttrice Renate Kampe, denunciando inoltre che il numero di persone richiedenti cibo in poco più di un anno era raddoppiato.

Per la prima volta dal 2009 la percentuale d’occupazione è diminuita. E’ stato registrato inoltre un netto calo nell’indice Pmi, l’indice composito che misura il livello dell’attività manifatturiera di un Paese.  Alla fine di settembre il PIL tedesco viene dato in calo sicuro per il secondo trimestre consecutivo e così ufficialmente la Germania entrerà in recessione.
La locomotiva d’Europa frena, anzi ha già frenato, e con sé potrebbe trascinare in una lunga fase di stagnazione buona parte dei Paesi europei che risultano essere il primo partner commerciale di Berlino, a partire prima fra tutti l’Italia.

I dati reali considerano soprattutto la produzione industriale rispetto alla quale il Paese è in recessione già da dodici mesi. Economicamente parlando non è un dato da poco, perché bisogna considerare che in Germania l’industria interna genera il 25% del prodotto interno lordo, una percentuale molto più alta rispetto alla media UE, che si attesta intorno al 17%.
Molteplici le cause di questa frenata: Le guerre commerciali internazionali in atto negli ultimi tre anni, le sanzioni europee alla Russia chieste a gran voce, anzi si potrebbe dire obbligate dalla Nato e dagli Stati Uniti, più che indebolire la Russia stanno ottenendo l’effetto contrario, ovvero sta collassando l’economia europea, in primsi quella tedesca. Il clima d’incertezza generale ha influenzato negativamente l’economia tedesca, che dipende fortemente dalle esportazioni, che rappresentano quasi la metà della produzione economica annuale del paese.

La Germania è il principale esportatore di merci in Europa e si colloca al terzo posto tra i maggiori esportatori del mondo, dopo Cina e Stati Uniti.
La domanda della Cina, che è un mercato importante per i prodotti tedeschi, si è indebolita a causa del rallentamento della crescita cinese, i dazi imposti da Trump infine hanno dato un colpo importante all’industria automobilistica tedesca.

Non a caso sono tornate brevi le settimane lavorative. In questo contesto, infatti un numero crescente di aziende tedesche ha reintrodotto in fretta e furia programmi di lavoro a breve termine, quelli che sono stati attuati durante l’ultima crisi finanziaria globale per mitigare il suo impatto sulle imprese industriali e sulla loro forza lavoro. Secondo un sondaggio condotto dall’Istituto Ifo per la ricerca economica con sede in Baviera, l’8,5% delle aziende tedesche del settore manifatturiero ha previsto di introdurre programmi di lavoro con settimane brevi al termine dei prossimi tre mesi.
In concomitanza alla brusca frenata della Germania, c’è anche la congiuntura della Brexit che almeno in termini di assetto europeo ha aperto una vera e propria porta sull’ignoto.

Sul piano politico interno, non appaiono all’orizzonte disegni strategici di ampio respiro, anzi, anche qui si sta nell’incertezza piena; a destra della Merkel i Liberali e Afd sono graniticamente schierati sulla trincea del rigore e dei conti in ordine. La sinistra rappresentata dalla Linke e dai Verdi chiede invece una forte discontinuità, ma è troppo lacerata al suo interno e troppo minoritaria per proporre piani unitari.

La dichiarazione recente del ministro delle Finanze tedesco, ovvero, voler allargare i cordoni della borsa e aumentare la spesa pubblica con interventi extra per 50 miliardi di euro, pari a quanto è costata alla Germania la Recessione del 2008, potrebbe essere solo acqua fresca.
A livello internazionale, l’elezione alla Commissione europea di Ursula von der Leyen parrebbe certificare l’intenzione del mantenimento della linea tedesca di rigore e sacrifici ai vertici dell’Unione.

Ma la prospettiva che si sta presentando davanti, e la dura realtà quotidiana dell’economia e dell’industria tedesca ed europea che si va paventando per niente in salute, potrebbe anche indurre a qualche drastico cambiamento di rotta.  Imsomma, una fase di massima incertezza, chiaramente visibile anche da terra, non stando all’interno della plancia, dove si prendono le decisioni economiche a livello europeo.

Di controcanto, Mario Draghi, il presidente della BCE a fine del suo mandato, che scade fra pochi giorni a fine ottobre, ha preparato ed armato il suo famoso “bazooka” quello del Quantitative Easing illimitato, alla mala parata pronto alla bisogna .  Caricato con munizioni pesanti, calibro da 20 miliardi di euro al mese se necessario, che in soldoni sarebbe a dire: produzione costante di valuta dal niente, così da abbassare il valore dell’euro, di modo da aumentare la circolazione interna di denaro, (che da una parte varrà meno e avrà meno potere d’acquisto, ma potendone circolare di più, spera Draghi, aver messo almeno un ideale incentivo a far girare più denaro); tenere bassi i tassi d’interesse ufficiali (per non scoraggiare gli investimenti a debito); e infine svalutare l’euro, così da sostenere le esportazioni dei prodotti.

A completare il quadro generale, il treno cinese ha fortemente rallentato, e se l’Europa non sta tanto bene, la Russia non sta certo meglio.

Di là d’Atlantico invece, all’orizzonte tuona: più di un economista su due prevede che nel 2020 l’economia americana entrerà in “zona pericolo”,  prevedono un brusco colpo di freno, o comunque forti segnali di recessione, già a partire dai primi mesi del 2020. Tra i fattori responsabili, la globalizzazione, l’invecchiamento della popolazione, il peso del debito cresciuto a dismisura, il basso aumento della produttività, la riduzione drastica degli scambi generata a forza di dazi e controdazi voluti da Trump, ultimo e non meno importante un problema interno sempre più forte, la destrutturazione sociale e la perdita di coesione.

Insomma economicamente parlando, per l’Europa è un po’ come essere con una barca nel mezzo al mare grosso, da una parte, il timone inchiodato, tenuto bloccato dal rigore del timoniere tedesco, dall’altra il prodiere italiano a guida della BCE, prima di scender dalla barca, ha sciolto i lacci di tutte le vele (piene di buchi, strappate e malandate) nel tentativo almeno d’imbarcare più vento possibile.

Speriamo almeno di non avere davanti i famosi scogli delle sirene di Ulisse, che magari ci cantano di un nuovo capitalismo sostenibile, più verde, più blu, più tutto, e mi si perdoni la facile ironia di questo momento, “più umano più vero, è il ballo del pippero” parafrasando una vecchia canzone di Elio e le storie tese.

Oppure, chissà, vista la situazione generale a livello mondiale, magari potremmo esser dinanzi alle famose Colonne d’Ercole, dove narrava finisse la terra, “non plus ultra” (non più avanti) dicevano a monito gli antichi, ma era soltanto una credenza sviluppatasi più tardi, nel primo medioevo, subito dopo il crollo dell’Impero romano.

In realtà  il “non plus ultra” rappresentava solo il limite estremo sì, ma non del mondo in termine assoluto, bensì del mondo conosciuto.

Di là dalle Colonne, Platone il greco, narrava di un altro “mondo”, una differente civiltà, diversa da tutte quelle allora conosciute, migliore, più rispettosa, più consapevole, più progredita col pensiero oltre che con la tecnica, che aveva fondato la propria società sull’avanzamento spirituale che veniva innanzi o almeno di pari passo a quello materiale. Un mito forse, quello del modello atlantideo, ma certamente positivo.

In compenso, all’apparenza almeno, parrebbe sia davvero finita e sepolta l’epoca delle ideologie,  adesso servirebbe però almeno qualche buona idea, più che legata alla crescita del capitale, che pare essere un binario morto, un’idea di vero sviluppo e vera crescita umana, e farsela venire anche piuttosto in fretta.