No, non possiamo andare avanti così. È ormai chiaro che non resta molto tempo per frenare e invertire la rotta di politiche e comportamenti che, con gli equilibri dell’eco-sistema, minacciano la vita stessa sul pianeta. Quel che va archiviato, però, è la causa vera di quella minaccia: un sistema fondato sull’accumulazione di capitale nelle diverse forme predatorie che essa assume. Dall’estrattivismo che devasta i luoghi e i legami comunitari delle popolazioni indigene alle politiche neoliberiste che stratificano, nell’oceano delle disuguaglianze, le forme dello sfruttamento affidando ovunque alla segmentazione del mercato la gestione delle crescenti esclusioni sociali. Il Forum Sociale Mondiale sulla Salute e la Protezione Sociale, tenuto a fine giugno a Bogotà, ha espresso tutta la consapevolezza dell’urgenza di restituire alla cura della vita la dignità che merita. Si tratta, ad esempio, di sottrarla senza esitazioni all’influenza corrosiva delle multinazionali e dei custodi dei loro interessi nei governi e nelle istituzioni internazionali. La necessità di cambiamenti radicali quanto profondi, imposta in modo ormai indiscutibile dagli effetti dei cambiamenti climatici, può paradossalmente aprire la strada a nuove opportunità. La via è l’affermazione di una democrazia ad alta intensità, nel segno dell’uguaglianza, cioè la creazione di mondi nuovi.

Naomi Klein ha ragione quando scrive che le popolazioni indigene, con i loro trattati sulle terre ancestrali, si sono dimostrate una formidabile barriera all’arroganza delle industrie estrattive in molte parti del pianeta. Grazie alla comune sapienza di dialogo con la natura, e di stretta relazione tra mondo umano e mondo naturale tout court, le comunità indigene sono anche le uniche in grado di raffigurare una prospettiva di sopravvivenza sul pianeta: sono loro l’avanguardia di pensiero e di lotta contro lo sfruttamento illimitato dell’ambiente e la avanzata mercantile senza regole sulla natura e sulla stessa vita umana che mette a dura prova, oggi, il futuro dell’umanità sulla Terra. La recente lotta degli indigeni Waorani che – sotto la guida di Nemonte Nenquimo, legale e attivista di etnia Waorani – hanno salvato dalle trivelle dei petrolieri 200mila ettari delle loro terre ancestrali nella Amazzonia ecuadoriana, è solo l’ultima conferma di questo assunto.

In Colombia, all’VIII Forum Sociale Mondiale sulla Salute e la Protezione Socialela cosmogonia delle comunità indigene latinoamericane presenti mi ha riportato più volte alle pagine della Klein sui cambiamenti climatici e la necessità di una rivoluzione galvanizzante – ben oltre le patetiche strategie di mitigazione e adattamento delle Nazioni Unite – per una trasformazione generale della politica. Così da restituire alla cura della vita (“el cuidado de la vida”) la dignità che merita, al bien vivir  il riconoscimento di strategia fondamentale per impostare economie locali sostenibili e per bonificare le nostre democrazie dall’influenza corrosiva delle corporation che spingono i governi verso processi di privatizzazione nel campo dei diritti. Salute e non solo.

Questa visione di resistenze accomunate dalla medesima dolorosa fibra e incrociate nella coscienza di una lotta globale contro lo stesso modello economico, tale da coinvolgere ormai inesorabilmente anche il nord del mondo con sacche di lotta che hanno poco da invidiare a quelle indigene, ha agito da potente intelaiatura nelle sessioni del Foro, all’Università Nazionale di Bogotà.

Tre giorni di riflessioni e denunce, scambi di esperienze e proposte, su salute, pace, crisi climatica, protezione sociale, diritti, giustizia tributaria e democrazia. Il Forum sociale tematico sulla salute, alla sua ottava edizione (le precedenti hanno avuto luogo in India, Tunisia, Marocco, Kenya, El Salvador, etc.) è stato un appuntamento decisivo per rilanciare l’idea stessa del Forum Sociale “di cui c’è un bisogno oggi come non mai”, nelle parole del sindacalista indiano Chandan Kumar.

La sessione, inoltre, ha segnato la tappa conclusiva di un percorso  plurale di mesi che ha coinvolto, a livello nazionale –  in Colombia, Brasile, Paraguay, Uruguay, Ecuador, Venezuela, Repubblica Dominicana, Perù – professionisti della sanità, comunità indigene, esperti dell’accademia, gruppi di donne e  associazioni del sindacato. Realtà, insomma, che si trovano per diversi motiviimpegnate a promuovere l’educazione popolare, a difendere la salute pubblica, a contrastare le derive privatistiche e gli accaparramenti di terre, che restano la grande, grandissima questione dell’America Latina.

https://www.facebook.com/VIIIForoSocialSalud/videos/2371196969869887/

Vivace la interazione con le esperienze internazionali di rappresentanti di Francia, India, Italia, Spagna, Belgio, presenti a Bogotà. Ci siamo ritrovati nella critica al modello assicurativo in campo sanitario, che ha trasformato la salute in terreno di conflitto fra ricchi e poveri, e di accaparramento di risorse pubbliche per lucri privati. Esiste una connessione profonda tra le concessioni ai privati di 18 dei 22 ospedali gestiti dalla municipalità di Bogotà, di cui parla Josè Vicente Pachon con dovizia di dettagli sulle difficoltà che ne derivano alle comunità residenti nei barriosdella capitale colombiana, e la irrefrenabile corsa alle polizze sanitarie per tutti che in Italia, occorre ricordarlo, scoprono  nei sindacati i principali corifei.

Perché tutte le questioni sono interconnesse e non può esistere separatezza fra i diritti delle persone e i diritti della madre Terra. Perché la sfida, come sa chi combatte da decenni espropriazioni delle terre, devastazioni dell’ambiente a opera di multinazionali che operano con il compiacimento dei governi – attraverso forme di corruzione, ma anche con licenze legali – intimidazioni e uccisioni, la sfida dicevo è quella fra un paradigma economico di morte e la vita.  Il costo in termini di salute ed erosione dei diritti umani è elevato. Elevatissimo, se ascoltiamo le parole di Maria Luz Marin cha parla del suo paese, il Paraguay, “nazione di terre senza contadini, e di contadini senza terre”. Oppure, se pensiamo alle centinaia di difensori dei diritti umani uccisi in Colombia dall’inizio dell’anno, come racconta Luz Teresa Gomes, vice-rettrice dell’Università.

La circostanza nuova è la coscienza globale che non possiamo andare avanti così. Che non resta molto più tempo per cambiare stile di vita, il funzionamento dell’economia, la percezione riguardo il nostro posto sulla Terra. Trenta anni fa, l’abbattimento del Muro di Berlino doveva portare con sé la promessa di una nuova storia di liberazione e di diritti umani.  Tocca prendere atto che quelle speranze non si sono tradotte in realtà. Non si fa altro che parlare di diritti, ma la civilizzazione universale attesa – un mix di opportunità educative, suffragio universale, crescita economica, iniziativa privata, e progresso individuale – non si è materializzata. Piuttosto, l’accettazione passiva delle disuguaglianze strutturali che dominano il nostro tempo, dello sfruttamento del lavoro e delle spaventose situazioni di vita in cui è costretta a vivere una porzione crescente di popolazione mondiale, come umanità di scarto, corrisponde a una utopia regressiva. Alla quale ha fortemente contribuito la abdicazione morale e intellettuale dei partiti della sinistra occidentale, il quali hanno perlopiù avallato e gestito lo smantellamento dello stato sociale, la massiccia privatizzazione dei servizi e la finanziarizzazione dell’economia. Vi dice qualcosa, il New Labour?

La globalizzazione del mercato ha prodotto uno svuotamento sistematico delle regole di diritto pubblico e un indebolimento in apparenza irreversibile della politica, intesa come strategia di mediazione nell’interesse generale. Leader autoritari e forme antidemocratiche di destra definiscono gli scenari della politica in molti paesi del mondo, mentre le masse si sentono abbandonate. Il potere politico viene usato invece contro la società, per indebolire o addirittura erodere le norme costituzionali e bypassare il ruolo dei parlamenti, controllare i mass media, con una evidente e progressiva restrizione degli spazi del pensiero critico. Quando non si approda alla criminalizzazione della società civile, come avviene in Italia senza soluzione di continuità dal 2016 (lo conferma una lettera inviata al governo italiano lo scorso febbraio, firmata da diversi rapporteur delle Nazioni Unite) sul terreno delle migrazioni.

La materialità delle politiche neoliberiste stratifica le forme dello sfruttamento, sotto la patina di nuove narrazioni che a malapena nascondono le fattezze delle solite vecchie proposte. Come quelle della Banca Mondiale, fautrice esasperante del modello pubblico-privato, paladina di una protezione sociale che affida alla segmentazione del mercato la gestione delle esclusioni sociali. Il discorso sulla crisi climatica rischia di affermare questa tendenza, e di convogliare nuove risorse nelle mani dell’1% della popolazione, come già si vede da anni con il fiorente commercio dei futures metereologici, grazie ai quali l’industria finanziaria può scommettere sui cambiamenti climatici.

Ma l’opportunità esiste, come mai prima: quella di usare il cambiamento climatico come un cavallo di Troia per superare il capitalismo e introdurre, come propone di nuovo Naomi Klein, una nuova visione eco-socialista. Spetta ai luoghi come il Foro Sociale di Bogotà prendere in mano il caleidoscopio di un mondo nuovo per forgiare le forme del diritto allo sviluppo, e una democrazia ad alta intensità, nel segno dell’uguaglianza.

 

 

 

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