Qui fu l’incontro che ha cambiato la faccia del mondo. Qui si forgiò un nuovo tipo umano a cui è stato dato di vivere nella più bella e luminosa provincia della terra.

L’amalgamarsi di africani, indios, europei, ebrei, e successivamente orientali, giapponesi, non fu una giunzione tra consanguinei come quella avvenuta sulle sponde del mare di Ulisse, ma un incontro tra le razze più diverse e distinte tra loro, quelle che durante millenni ignoravano l’esistenza l’una dell’altra. Con la lentezza di un tempo che respira i suoi attimi nella calura del tropico e la speranza in un futuro tutto da costruire, sotto l’auspicio di che nulla può essere peggio di ciò che si è già sofferto, la Terra Brasilis ha spalancato le braccia alle moltitudini dei diseredati, anzi, è nata dal cuore e dalle mani di ogni uomo qui accolto: la Terra Brasilis è stata inventata dalla presenza concreta e dalla visione di coloro che, per non voler fermarsi a guardare il passato, sono stati capaci di proiettare se stessi nell’immaginario mitico di un mondo da costruire.

Se la foresta dava ai popoli originari tutto ciò di cui necessitavano, se l’innocenza e la felicità innata, permeavano la vita di genti ignude mai toccate dal peccato, se qui, su questo suolo era davvero il luogo fisico del Paradiso Terrestre, se davvero la terra provvedeva al fabbisogno, se era vero che la peste e i suoi bubboni, la carie dei denti, la scabbia, lo scorbuto, se era vero che neanche il raffreddore offendeva la felicità di queste genti in stato di purezza e innocenza, allora  significava  che Cristo era morto per niente, significava che i martiri erano morti per niente, che la struttura ecclesiastica a niente serviva, i libri, la storia, gli imperi, i santi, tutto era invano, tutto inutile. L’innocenza e la purezza di chi, nudo e felice, coglieva il suo, solamente allungando un braccio alla palma più vicina, feriva l’orgoglio iberico, la dignità della stirpe che sul lavoro, la fatica, la forza e la muerte aveva basato (e su cui si basa fino ad oggi) l’ordine morale di tutte le cose. E non c’è niente di più forte e devastante dell’ordine morale, del precetto, della tradizione, della legge.

Così l’innocenza e la purezza paradisiache, agli occhi dei nuovi arrivati si trasformarono in simbolo di un peccato ancora peggiore, il peccato infernale: la prova del dominio del Male. Senza saper di Dio, questa era senza ombra di dubbio, terra del nemico, casa del demonio. E il demonio è il padre della menzogna, e la menzogna è tentazione. E  nella mente dei nuovi arrivati, la immagine del paradiso, presente e viva nell’aria nella terra e negli uomini, diventò l’immagine dell’inferno. Un inferno di calura la cui umidità impregna le ossa degli uomini e li riduce a massa di amorfa indolenza, un inferno di piante sconosciute i cui rami penetrano all’interno delle case, le cui radici scardinano le fondamenta delle chiese, un inferno di animali immondi dalla forma bizzarra mai descritti dagli antichi saggi, sconosciuti ai filosofi, assenti nelle relazioni dei viaggianti, animali più paurosi del basilisco, più mostruosi dell’anphisbaena, o meglio, essi stessi basilisco ed anphisbaena. La presenza di mille pappagalli colorati, mille farfalle e mille colibrì, la presenza di fiori dall’odore del miele non era altro che una illusione del Nemico del genere umano, richiamo per gli allocchi e illusione e inganno dei sapienti. Il Paradiso Terrestre svanì come in un sogno e la dura realtà inaridì ogni aspettativa. Gli eserciti stranieri bruciarono pacati villaggi per non tollerare la loro orgogliosa indipendenza e presero possesso delle anime nude. Le radunarono in enormi agglomerati umani, per non tollerare la loro orgogliosa indipendenza, le vestirono con caste palandrane in segno di scherno per non tollerare la bellezza dei loro corpi, li spogliarono della loro dignità sostituendo la natura, madre di tutte le cose, con il dio degli eserciti, li annichilirono con il lavoro schiavo, e quando cominciarono a lasciarsi morire di tristezza li obbligarono a scappare sempre più lontano, a rifugiarsi nell’interno sconosciuto e inesplorato. Quando si accorsero del disastro che avevano provocato, gli eserciti neri proposero di chiamare le turbe oziose di africani idolatri. Lasciare in pace i nativi, inabili e refrattari ad ogni tipo di lavoro, e usare i muscoli delle popolazioni nate apposta per essere schiave. Offrire loro il battesimo e la salvezza in cambio di obbedienza e rassegnazione. Loro, gli africani, sarebbero diventati gli eletti e i preferiti del Signore, avrebbero sofferto le Sue piaghe sotto la frusta e i ceppi dei fattori e come l’agnello al sacrificio si sarebbero lasciati immolare silenziosi e pazienti. E così fu. Nacque il Brasile.

Nel frattempo da Lisbona arrivò Pero Borges. Condannato in patria per malversazione, peculato, corruzione ed ogni sorta di delitto contro il patrimonio della corona, venne nominato Ministro della Giustizia e delle Finanze della Terra Brasilis. Fu il primo di una lunga stirpe. Si istaurava così il sistema vigente fino ai nostri giorni, in cui la cosa pubblica e la privata sono un tutt’uno. Un sistema nel quale le alte cariche della Nazione dichiarano guerra alle strutture strategiche dello Stato, la scuola e il servizio sanitario. Si comincia con i tagli dei fondi, stipulati per legge, alle università federali, accusate di essere il ricettacolo della sovversione basata sul marxismo culturale, in cui a gente nuda in piena orgia si mischiano gli integranti del movimento dei senza terra. I rettori, pubblicamente insultati dal ministro e dal presidente, annunciano che saranno costretti ad interrompere ogni attività. Ma non importa, perché la pietra scartata dai costruttori è diventata pietra angolare. A citare il Vangelo, commosso fino alle lacrime è il nostro ministro degli esteri in una cerimonia ufficiale. È convinto di partecipare ad una impresa epica, la rifondazione di un nuovo paese, sottomesso a Dio e a Bolsonaro.

Ubbidienti come un cadavere, perinde ac cadaver, era la disposizione che Ignazio di Loyola diede ai suoi uomini: Leonardo Nunes, João de Azpilcueta Navarro, Vicente Rodrigues, Antonio Pires, Diogo Jácome, sotto la guida de Manuel da Nobrega. Era il 1548, la caravella arrivò sana e salva nel porto di São Salvador de Bahia de Todos os Santos. Assieme ai primi missionari gesuiti, sbarcò anche Pero Borges.

Ma immaginare che la popolazione resti a guardare come se niente fosse tutto ciò che sta accadendo, significa non aver capito niente della storia del nostro paese. Perché la gente ha perfettamente compreso cosa c’è davvero in ballo: lo smantellamento radicale di ogni idea di solidarietà sociale. Stiamo camminando in direzione a un conflitto sociale di proporzioni incalcolabili. Il Paese non sopporta più questa successione di crisi programmate e volute, lo stato di eccezione divenuto normalità: nessun programma proposto da questo governo può rispondere all’impoverimento generale della popolazione, alla disoccupazione in massa, al precariato ormai divenuto norma di convivenza civica, alla massiccia concentrazione del reddito in favore di una mezza dozzina di speculatori. Il Brasile ha il sangue marchiato nel fuoco dalla sua memoria e dalla sua Storia, una Storia lunga e dura di rivolte popolari e di resistenza culturale, malgrado i gesuiti, malgrado Pero Borges, malgrado Bolsonaro e i suoi ministri. Vogliono cancellare la memoria storica, vogliono abolire i corsi di filosofia e sociologia, vogliono chiudere le università, per rubarci il futuro; la frammentazione della lotta sociale, orchestrata dai padroni di ieri e di oggi, si trasformerà, la trasformeremo in creazione di forza collettiva: il fascismo perde sempre, è la Storia che lo dice, il fascismo perde sempre. Per questo hanno paura.