Brasilia, Commissione dei Diritti Umani: assistenza sanitaria dei popolo indigeni.

“La cosa più importante di questo governo è il rispetto alle minoranze, i popoli indigeni oggi possiedono il 13% del territorio nazionale, e l’area destinata all’agricoltura è solo il 7%. Sono disponibili ingenti somme di denaro e fondi di ogni genere per le politiche in loro favore, per quale ragione allora gli indios continuano ad essere miserabili e vivere come tali, con il 13% del territorio nazionale a disposizione quando noi utilizziamo solo il 7% di esso? La terra non è vostra, la terra è dello Stato. Gli indios potrebbero essere ricchissimi. Sono loro, gli stessi indios che dilapidano le sostanze a loro destinati? È questo che vogliamo sapere!”

Purtroppo è molto difficile ascoltare in questa sede, la vostra visione razzista, alienata, piena di pregiudizi contro di noi e rimanere zitti, perché il vostro discorso, ritratta molto bene il pensiero “ruralista” legato all’agro-business impregnato nella Camera dei deputati e nel Senato, per flessibilizzare ad ogni costo la questione ambientale e ottenere via libera per lo sfruttamento del territorio. La visione che avete della terra è molto diversa dalla nostra: non potete neanche concepire che noi, popoli indigeni, possiamo pensarla in modo diverso da voi e dalla vostra visione in favore del guadagno facile, dello sfruttamento e della distruzione. Noi non pensiamo come voi. Il territorio è sacro, e da esso dipende la nostra esistenza. Voi definite la terra indigena come improduttiva, per noi invece la terra è vita: il mondo intero è preoccupato per la questione dei cambiamenti climatici, il mondo intero sta pensando alla miglior forma di ridurre la produzione di gas carbonico e conseguire un equilibrio del clima. E qui in Brasile, come ormai è tipico di questo governo truculento, si vuole concedere l’uso di questi territori allo sfruttamento industriale: non pensate alla vita, ma ai soldi facili, al guadagno immediato, è la vostra cupidigia a servizio del capitalismo. Noi difendiamo la vita, e difenderemo la nostra identità fino all’ultima goccia di sangue per salvaguardare i nostri territori e garantire l’esistenza dei nostri popoli. Non cederemo facilmente a questa voglia di distruzione dell’agro-business; non potete dire che siccome possediamo già il 13%  del territorio possiamo accontentarci: la nostra gente nel nord-est fu espulsa dalla sua terra, occupata dai fazendeiros fin dai tempi della dittatura militare. I territori indigeni regolarizzati – e questo è vero – non sono nostri: sono dello Stato, ma in usufrutto esclusivo dei popoli indigeni. E noi abbiamo la responsabilità di custodirli perché si tratta della nostra relazione sostenibile con la natura, per rispetto verso la natura stessa. Il grido della terra chiede aiuto e voi non volete ascoltare, non volete vedere i segni, le alluvioni, le siccità, gli uragani, voi non volete vedere. È scientificamente provato che, continuando così, il pianeta, in cinquant’anni, non resisterà. E adesso arriva il governo, per mezzo del suo ministro degli esteri, a dire che la questione ambientale è una invenzione marxista, che il problema della terra indigena è mosso da motivi ideologici. È ora di smetterla. Se non volete rispettarci, non dovete fingere di essere nostri amici, affermatelo chiaramente, non come fa Bolsonaro quando dice che è fratello degli indios. Che razza di fratello è questo che vuole estinguerci, che vuole la nostra fine, che vuole ucciderci, che vuole annullare il nostro diritto di esistere? Dovete liberarvi di questa vostra alienazione che considera la terra indigena appena come un investimento mensurabile con i soldi. È necessario sapere che la terra e l’ambiente, garantiscono la vita di tutti: pensate alle acque che lá si trovano e che noi preserviamo con il nostro modo di vivere. Voi continuate ad espandere le vostre monoculture e il latifondo, in detrimento della vita dei popoli originari. Sì, noi lotteremo e molti di noi moriranno. Cinque secoli fa eravamo più di cinque milioni, oggi siamo rimasti in pochi, ne moriranno ancora molti, ma non retrocederemo, non desisteremo, vi combatteremo con tutte le nostre forze. Affermate che noi siamo miserabili! Viviamo così perché è una nostra scelta, perché vogliamo. Vogliamo il nostro territorio per continuare a vivere nel nostro modo di vita, il Brasile non può imporre una unica forma di vita per tutti: è necessario rispettare le differenze, la diversità, è necessario rispettare i vari popoli presenti in questo paese. Sì: noi viviamo nei villaggi perché vogliamo rimanerci, è la nostra resistenza, se dipendesse da voi saremmo tutti espulsi e non esisteremmo più, non esisterebbe neanche un angolo per costruire i nostri villaggi e praticare i nostri riti sacri, la nostra cultura, la nostra vita. Il fatto che tu abiti in città e in un bell’appartamento, un attico, una villa, non significa che questo vada bene anche per noi. Noi vogliamo rispetto per il nostro diritto territoriale che non è solamente garantito dalla costituzione, ma è un diritto originario dei popoli indigeni. Vogliamo rispetto anche da quest’aula: noi non consegneremo la nostra vita all’agro-business.

Le parole di Sonia Guajajara risuonano ancora come un monito, come un avviso, un dito puntato contro la cattiva coscienza di un paese che dalla biopolitica del controllo totale è passato alla necropolitica esplicita. La minaccia di morte si concretizza nei fatti: le truppe speciali che occupano  con grande enfasi la città di Rio de Janeiro, e quelle che, in sordina, occupano le favelas di São Paulo, non hanno mai lasciato sul campo tanti morti come in in questi ultimi tre mesi. Il conflitto per la terra ha oltrepassato la soglia del dibattito duro: il decreto di liberazione del porto d’armi per i fazendeiros è stato legalizzato così come la licenza di uccidere per difendere la proprietà privata, attraverso la norma chiamata  excludente de ilicitude, l’assenza di illecito nell’atto violento di ciò che viene inteso come difesa. Sonia Guajajara, la più grande leader indigena attuale, lancia il grido del suo popolo durante la commissione parlamentare, una farsa costruita ad arte per dimostrare quanto magnanimo sia il governo attuale. Una farsa così grande che permette al senatore di insultare gli indios di immoralità, di miserabilità volontaria, di incapacità culturale per capire l’importanza dello sviluppo agricolo e dello sfruttamento territoriale. Sonia Guajajara dice quello che pensa: Noi non vogliamo il lusso delle vostre città, ma il diritto alla nostra terra, alla nostra vita, e combatteremo fino all’ultima goccia di sangue.

Le sue parole sono ancora nell’aria quando un nuovo attacco alle conquiste popolari degli ultimi anni viene effettuato con una violenza inaudita. Una delle grandi conquiste dei governi progressisti, fu la costruzione di decine di istituti universitari federali, in tutto il territorio nazionale: la risposta all’esigenza popolare alla fame di cultura e conoscenza. Il governo attuale vede nelle università, e nel mondo accademico un nemico da abbattere, costituito da professori indottrinatori formati su idee marxiste con le quali forgiano orde di studenti dediti alla droga e alle orge, addirittura dentro le dipendenze delle facoltà federali. Decide quindi di mettere fine a tutto questo tagliando i fondi. La risposta è immediata. In una manciata di giorni si riesce a organizzare una manifestazione nazionale. Ci si aspettava un grande esito. Ma le parole del presidente, pronunciate in mattinata, hanno trasformato una normale manifestazione in una specie di catarsi collettiva. Dice Bolsonaro: La maggioranza dei manifestanti è composta da militanti politici. Non ha niente in testa. Non sa neanche fare 7×8. Non conosce la formula dell’acqua. Non sa niente. Sono un gruppo di idioti utili, imbecilli, massa di manovra di quei gruppuscoli politicizzati che controllano le università.

Centomila a São Paulo, il doppio a Rio. Salvador, Recife, Belem. In tutte le capitali. In 210 città. Cinque milioni di persone in piazza, o forse più. Studenti, professori, lavoratori, simpatizzanti ed anche un vecchio fisioterapista amico mio, arrivato un po’ tardi e che non è riuscito ad arrivare fino al palco dalla ressa che c’era. E adesso si prepara uno sciopero generale. L’attacco del governo alla suo popolo, gli insulti, le minacce, l’abisso autoritario, la crisi economica, la disoccupazione che raggiunge quattordici milioni di persone, la miseria e la fame, formano uno scenario distopico degno delle peggiori previsioni. La Storia insegna che quando il potere chiude ogni via di dialogo, bisogna cominciare a resistere con le armi che si hanno. La voce, le mani, il corpo. Come il dito accusatore di Sonia Guajajara, il vecchio slogan, oggi in piazza, lo urlo anch’io: No Passarán!