La notizia, apparentemente, è una di quelle che fa sorridere. Arriva dal Centro Biologico CEIBA di Madewini, in Guyana, dove un attento studio sull’impatto del riscaldamento globale sugli ecosistemi forestali ha dimostrato che “lucertole e farfalle originarie dell’Amazzonia spendono sempre più tempo all’ombra, per mantenere la temperatura corporea stabile durante i picchi di calore”. Che novità, direte, da che mondo è mondo anche i rettili e i lepidotteri quando fa caldo si mettono all’ombra. Nulla di nuovo quindi, se non fosse che il tempo passato all’ombra “è sottratto ad altre attività essenziali alla sopravvivenza, come procurarsi cibo, cercarsi un compagno, o difendere il territorio”. Di fatto molti degli animali osservati dal CEIBA hanno sviluppato una strategia per sopravvivere al cambiamento climatico, ma per gli studiosi che hanno condotto la ricerca “questo comportamento è preoccupante visto che sottrae risorse essenziali alla sopravvivenza e alla riproduzione”. Con che ricadute sugli ecosistemi forestali e la loro biodiversità? Tante!

Per il direttore del Centro Biologico, Godfrey Bourne, la scelta come campione di farfalle e lucertole originarie dell’Amazzonia non è stata casuale: “Era importante capire se anche un moderato aumento delle temperature avrebbe potuto avere un impatto sulle attività quotidiane e sulla funzione metabolica di queste creature fondamentali per l’ecosistema Amazzonia”. Poiché le farfalle sono essenziali impollinatori e le lucertole hanno un ruolo decisivo nella diffusione dei semi, una loro diminuzione o peggio ancora una loro scomparsa potrebbe influenzare negativamente la vita dell’intera foresta amazzonica. Le lucertole tropicali che Bourne ha studiato, infatti, si nutrono di piccoli frutti caduti e “quando mangiano questi frutti si muovono a diversi metri dall’albero genitore dove i semi vengono evacuati. Questi semi che si trovano nelle feci hanno una maggiore possibilità di sfuggire ai predatori di semi e quindi germinano con maggiore probabilità”, ha spiegato Bourne. Ne consegue che, una riduzione delle lucertole, al pari di quella delle farfalle con la loro opera di trasporto del polline dalla parte maschile a quella femminile dell’apparato riproduttivo della stessa pianta o di piante diverse, finirà con l’abbassare anche la capacità della foresta di riprodursi.

Se non ci pensano farfalle e lucertole ad alterare con la loro resilienza al cambiamento climatico l’equilibrio forestale, ci pensa direttamente l’uomo, senza la mediazione antropica del riscaldamento terrestre. È il caso dell’Uganda, dove per il network internazionale Salva le Foreste anche l’Autorità forestale nazionale (NFA), “ha espresso preoccupazione per la ricorrente sostituzione di foreste naturali con piantagioni di eucalipti e pini in molte aree del Paese, comprese le zone umide”. Secondo Tom Okello Obong, direttore esecutivo della NFA, “la crescente tendenza a distruggere le specie arboree locali per sostituirle con eucalipti e pini a scopo commerciale ha un grave impatto sul clima”. Per Okello in alcune aree la conversione ha interessato perfino le aree protette e i rapporti della NFA indicano che “la copertura forestale dell’Uganda è drasticamente diminuita dal 24% della superficie nazionale (4.933,271 ettari)  nel 1990 a meno del  9% (1.956,664 ettari) nel 2018”. Una situazione difronte alla quale l’NFA ha reagito lanciando nel 2019 una campagna nazionale per la piantumazione di alberi locali, con l’obiettivo di raggiungere i 10 milioni di nuovi alberi utili per ripristinare la copertura boschiva perduta del paese. Per l’Autorità forestale ugandese l’intervento è in linea con l’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 13 dell’Agenda 2030, che richiede un’azione urgente per combattere il cambiamento climatico e il suo impatto” e va di pari passo con “il nuovo divieto di piantumazione degli alberi di eucalipto nelle zone forestali umide del Paese”.

Ma oltre all’aspetto climatico e a quello commerciale, i nostri preziosi ecosistemi forestali hanno un terzo e sempre più attuale nemico. Si tratta delle mega-dighe, che secondo una ricerca dell’Università di Stirling in Scozia, pubblicata a gennaio sul Journal of Applied Ecology, non dovrebbero essere costruite nelle aree di foresta tropicale a causa della minaccia che rappresentano per la biodiversità di questi ecosistemi. Il nuovo studio si è concentrato sul sistema idroelettrico di Balbina nell’Amazzonia brasiliana ed è stato condotto su 89 aree forestali sparse nelle 36 isole di Balbina, rivelandosi emblematico. Come molti sistemi idroelettrici nella regione, la diga di Balbina ha causato un’estesa frammentazione delle foreste, con vaste aree di terra allagate che ha trasformato in isolette la cime di numerose colline oramai sommerse. Per gli esperti scozzesi il risultato è che “le comunità arboree sulle isole di Balbina sono instabili e alcune specie rare si stanno estinguendo a causa dell’isolamento”. 

Non è difficile intuire come le mega-dighe, che fino ad oggi hanno spostato tra i 40 e gli 80 milioni di persone portando a impatti sociali spesso drammatici, possano verosimilmente alterare anche il funzionamento degli ecosistemi a cominciare dallo stoccaggio del carbonio. Per la dott.ssa Isabel Jones, ecologa della Facoltà di Scienze Naturali di Stirling, che ha condotto la ricerca, “Idealmente, raccomandiamo di non costruire dighe nelle regioni di foresta tropicale, questi bacini artificiali, infatti, oltre a influire negativamente sulla biodiversità attraverso la perdita di habitat terrestri e acquatici, possono emettere quantità significative di gas serra, incluso il metano, che può rendere le dighe tropicali molto meno verdi rispetto ad altre fonti rinnovabili”. Nonostante questo, la costruzione di dighe in Amazzonia è in aumento, con oltre 280 nuove dighe pianificate o già in costruzione, tutte opere che mettono a rischio l’equilibrio climatico globale. Per questo secondo la Jones la perdita di specie arboree e di biomassa, un fattore largamente ignorato nelle valutazioni di impatto ambientale, “in futuro dovrà essere preso in considerazione esplicitamente nella pianificazione e autorizzazione alla costruzione di future dighe, se non vogliamo perdere il nostro inestimabile patrimonio forestale”.

Alessandro Graziadei

L’articolo originale può essere letto qui