Un politico indagato per gravi reati deve dimettersi oppure è necessario attendere la fine del processo, poiché un “imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” (art. 27 Costituzione)? Questa domanda si pone ogni volta che un’inchiesta giudiziaria coinvolge parlamentari o membri del governo in carica.

Recentemente è emersa anche in relazione al sottosegretario per le Infrastrutture, il senatore della Lega Armando Siri, indagato per corruzione. In seguito ad accertamenti svolti dalla Direzione investigativa antimafia, nei confronti di Siri viene ipotizzato uno scambio di favori, utilità e denaro per agevolare aziende nel settore dell’energia eolica considerate vicine all’imprenditore trapanese Vito Nicastri – da un anno agli arresti domiciliari – che secondo gli investigatori ha coperto e finanziato la latitanza del capo mafia Matteo Messina Denaro.

In questo dibattito sulla responsabilità politica e giudiziaria, è stato trascurato un elemento che dovrebbe essere fondamentale. Armando Siri nel 2014 ha patteggiato una pena di 20 mesi per bancarotta fraudolenta per il fallimento della società MediaItalia. Nel dispositivo della sentenza i magistrati hanno scritto che prima del crack Siri e soci hanno svuotato l’azienda, trasferendo il patrimonio a un’altra impresa la cui sede legale è stata poco dopo spostata nel Delaware, paradiso fiscale americano.

Con riferimento a questa sentenza, Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, ha dichiarato: “Io credo che il patteggiamento, giuridicamente, sia parificabile a una condanna. Per me uno che patteggia una bancarotta è colpevole di una bancarotta. Ritengo che la bancarotta sia un reato grave”.

Di conseguenza, la domanda più corretta non è se un politico indagato per corruzione debba dimettersi, ma com’è possibile che un condannato per bancarotta fraudolenta sia diventato senatore e addirittura sia stato nominato sottosegretario nel governo?

è appena il caso di ricordare che persino il diritto di voto può essere limitato “per sentenza passata in giudicato o nei casi di indegnità morale” (art. 48 Costituzione). I costituenti hanno pensato soltanto all’esclusione dal voto, non potendo immaginare che cittadini condannati potessero presentarsi come candidati ed essere eletti come rappresentanti del popolo. Poveri illusi: credevano al significato delle parole, consapevoli che il sostantivo “candidato” derivasse dall’aggettivo “candido”