A 33 anni dal tragico incidente nucleare epocale di Chernobyl si moltiplicheranno commemorazioni rituali: ci sembra più efficace cambiare registro, dando voce a chi in Italia ospitò i bambini di Chernobyl per periodi variabili, un’esperienza che cambiò anche gli ospitanti. Abbiamo costruito questo ricordo grazie a Chiara Zanoccoli, Tatiana Senkova e Paola Prizzon

Le impressioni infantili di Chiara Zanoccoli

Nel 1986 avevo 9 anni e con i miei genitori mi ero da poco trasferita in una casa in campagna, a Pergine Valdarno, lasciando Firenze, la città nella quale ero nata e avevo vissuto fino ad allora. Una scelta che solo molto più tardi ho capito essere anche ‘frutto della storia’, una scelta di vita che era insieme anche ‘scelta politica’.

Ho alcuni ricordi nitidissimi di quell’accaduto, che si collocano nelle settimane immediatamente successive all’esplosione: ero in un negozio, con mio padre, che disse che non era possibile acquistare latte fresco e neppure insalata e verdura a foglia. Ricordo che l’idea di non poter mangiare insalata non mi preoccupava più di tanto. Poi il pomeriggio, a volte, andavo in un maneggio vicino a casa: ci dissero che i cavalli non potevano mangiare erba fresca, anche per loro era pericoloso. I discorsi che sentivo in casa mi turbavano: c’era paura della pioggia, della nube tossica che si sarebbe potuta avvicinare molto all’Italia, a secondo dei venti. Questi sono gli unici ricordi che ho di quel fatto, poi non ricordo più niente.

Nel 1996 avevo 19 anni, mia madre continuava a fare l’insegnante di educazione artistica alle scuole medie ma nel contempo aveva accettato di impegnarsi nell’amministrazione comunale di Pergine e in quell’anno era vice sindaco del Comune. Legambiente propose di aderire ad un progetto che prevedeva l’accoglienza per ‘I bambini di Chernobyl’: si offriva la possibilità a gruppi di bambini di trascorrere un periodo in Italia, lontano dalle zone contaminate, anche per sottoporsi ad accurati screening medici, dato che il rischio di ammalarsi di leucemia era per quelle popolazioni molto più alto. L’amministrazione di Pergine Valdarno, con un altro comune confinante, Laterina, aderì con entusiasmo e convinzione.

Nell’estate del 1996 arrivano i primi 30 bambini dalla cittadina di Slavgorod, al confine tra Bielorussia e Ucraina, accompagnati da Tatiana Senkova, una giovane laureata in lingue, che parlava un ottimo italiano e che si era resa disponibile a portare i bambini in Italia per più di un mese.

Ricordo come fosse ieri la sera del suo arrivo, eravamo tutti tesi in casa, emozionati per quell’arrivo. Tatiana quando arrivò era stremata dal viaggio, io avevo nei suoi confronti quel pudore misto ad imbarazzo che si ha per coloro che hanno attraversato una tragedia.

Fu un mese impegnativo per tutti: per i bambini, che si trovarono lontani dalle loro famiglie, in un mondo nuovo e così diverso, per Tatiana, costantemente impegnata in un complesso lavoro di accompagnamento e mediazione tra contesti diversi, per mia madre, alle prese con l’organizzazione degli eventi, con i timori delle famiglie ospitanti e, alla fine del soggiorno, anche con il dolore della separazione delle famiglie dai bambini ospitati.

Oggi, ho 42 anni, vivo e lavoro a Firenze.

Tatiana ha lasciato il suo paese di origine e lavora da un paio di anni con contratti precari in Italia. Attualmente è responsabile di una struttura turistica in provincia di Siena. Ha una figlia, che vive e lavora a Milano.

Paola Prizzon vive sempre a Pergine Valdarno, dove è stata sindaca dal 1994 al 2014. Ora è in pensione, ma impegnata come presidente dell’Auser del Comune di Pergine Valdarno.

Ho raccolto, con una certa emozione, i ricordi di Tatiana e di Paola che potete leggere qui di seguito, che rappresentano il tentativo di dare voce in modo non rituale e da prospettive molto diverse, a chi quella tragedia l’ha vissuta sulla sua pelle e a chi ha cercato di capire e dare solidarietà. Sono assenti i ricordi dei bambini, oggi tutti adulti, che speriamo, almeno in parte, di riuscire a raccogliere per il prossimo anno.

Una testimonianza di Tatiana Senkova

Il 26 aprile del 1986 nella Centrale di Chernobyl, durante un test di sicurezza in cui furono ignorate le più banali regole di sicurezza si innescò una reazione a catena che portò all’esplosione del reattore numero 4.

Gran parte della nube radioattiva che si liberò dall’esplosione del reattore della centrale ucraina, ricadde per effetto dei venti in Bielorussia, contaminandone il 70% del territorio con radionuclidi come lo iodio-131, lo stronzio 89-90 e il cesio-134 e 137.

È stato calcolato che l’incidente di Černobyl’ abbia rilasciato una quantità di radiazioni pari a 400 volte a quelle rilasciate in occasione della bomba caduta su Hiroshima.

Avevo 20 anni e ricordo bene che quel giorno all’improvviso nel pomeriggio cadde una pioggia abbondante lasciando le pozzanghere di color arancione scuro. Facevo l’Università a Minsk e studiavo lingue straniere. Per praticare l’inglese noi, ragazzi, ascoltavamo la radio BBC da dove sapemmo 2 giorni dopo cosa avenne a Chernobyl e che il color arancione scuro delle pozzanghere non era altro che iodio -131, l’elemento che avrebbe causato tanti casi di tumore della tiroide e di leucemie.

La popolazione non sapeva come comportarsi e cosa fare. Consigliavano di consumare il vino rosso che avrebbe ridotto il livello di radioattività accumulata, nei villaggi per mancanza di vino bevevano la vodka.

Il primo maggio, la Festa del lavoro e il 9 Maggio, la Giornata della Vittoria, nelle scuole continuavano a fare le feste all’aperto e i bambini svenivano uno dopo l’altro e nessuno riusciva a capire il perchè. I nostri mezzi di comunicazione tacquero fino a metà maggio quando si iniziò a parlare di un “insignificante guasto di Chernobyl”.

Nel 2002 ho letto il libro “Preghiera per Chernobyl” di Svetlana Aleksievic, l’autrice bielorussa, che nel 2015 ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura.

Il libro raccoglie tante testimonianze sui primi giorni dopo l’esplosione.

Subito dopo l’incidente è nata la cooperazione umanitaria molto intensa tra Italia e Belarus sviluppandosi nel corso degli anni in modo particolarmente articolato. Ogni anno diverse migliaia di minori bielorussi si recano in Italia per beneficiare di soggiorni di risanamento nel quadro dei programmi di cooperazione umanitaria, ospiti delle famiglie italiane. Si calcola che nel corso degli anni quasi 500.000 minori bielorussi sono stati ospiti almeno una volta in Italia, la maggior parte più volte.

Con uno o due mesi lontani dalle aree contaminate, con la possibilità di eseguire controlli medici, seguire un’alimentazione equilibrata, possono ridurre il rischio di ammalarsi di leucemia, di cancro e di altre malattie collegabili all’assorbimento di radiazioni.

Il mio primo viaggio a scopo terapeutico con il ruolo di interprete ebbe luogo nel lontano 1996 quando i comuni di Pergine Valdarno, Laterina e Montevarchi uniti insieme, ospitarono più di 30 bambini regalandogli non solo le cure ma anche un programma intenso culturale e istruttivo: l’incontro con Primicerio, allora Sindaco di Firenze, la visita ad Emmaus, le passeggiate a cavallo, le giornate scolastiche condivise con i bambini italiani. Dopo i soggiorni di risanamento proseguirono le visite da parte italiana, la collaborazione reciproca, per poter costruire insieme nuovi programmi di accoglienza. Dal 1997 ho viaggiato tutta l’Italia nell’ambito dei programmi umanitari come accompagnatrice ed interprete, acquistando degli amici veri e propri. A quasi trent’anni dall’esplosione, sembra impossibile che Černobyl’ sia stato teatro del più grande disastro tecnologico del XX secolo: ce ne siamo già dimenticati. Eppure molte persone, soprattutto quelle più povere, sono tornate a vivere in quelle lande desolate perché non saprebbero dove altro andare, perché il legame intimo che hanno con la propria terra supera ogni paura, persino quella della morte.

Una testimonianza di Paola Prizzon

I comuni di Pergine Valdarno, Laterina e Montevarchi nel 1996 decisero di aderire al Progetto di Legambiente, che prevedeva l’accoglienza per gruppi di bambini durante il periodo estivo. Provenivano dal paese di Slavgorod, al confine tra Bielorussia e Ucraina, fortemente contaminato dalla nube radioattiva.

Nel 1996 ricoprivo l’incarico di vice sindaco del Comune di Pergine Valdarno. L’amministrazione di cui facevo parte decise con entusiasmo di aderire al progetto, che ci permise di intraprendere un lavoro di approfondimento e conoscenza, che riuscì a coinvolgere molte famiglie del nostro comune, dovendo individuare quelle disponibili ad accogliere i bambini per un periodo di circa un mese. Le famiglie italiane avevano però bisogno di rassicurazione, che fu trovata all’interno di frequenti momenti collettivi a cui erano invitati a partecipare i bambini insieme a tutte le famiglie ospitanti e poi progetti quotidiani di attività ludiche e ricreative. Tatiana, l’accompagnatrice dei bambini, è stata mia ospite e parlava un ottimo italiano. Con lei ebbi modo di progettare il calendario delle attività, nel quale decidemmo di inserire momenti in cui veniva spiegato alle famiglie il contesto sociale dal quale i bambini provenivano, fatto in moltissimi casi di povertà e deprivazione. Tutti i bambini furono sottoposti ad approfonditi controlli medici, ma non emersero mai particolari criticità. Avevano bisogno di un’alimentazione equilibrata, momenti di gioco e conoscenza. Ricordo che questi bambini videro per la prima volta il mare in quell’anno, qua in Italia. Con le famiglie italiane che accolsero questi bimbi, con le testimonianze di Tatiana, credo che insieme sia cresciuta in tutti noi anche una consapevolezza maggiore, più diretta e concreta del disastro ambientale e umano che quell’evento ha avuto. Questo è stato importante.

Qualche anno dopo ho fatto un viaggio in Bielorussia, ho visitato i posti da cui provenivano i bambini che abbiamo ospitato e ho toccato con mano quel disastro ambientale. Una popolazione che viveva quasi esclusivamente di agricoltura, che si trovò dopo l’esplosione della centrale, nell’impossibilità di soddisfare le necessità primarie. Una economia al collasso, una sanità incapace di provvedere alle cure minime. Mi colpì moltissimo vedere come interi villaggi fossero stati interrati, ricoperti di terra perché nessuno vi tornasse più a vivere.

L’esperienza di collaborazione tra il Comune di Pergine Valdarno e Legambiente è durata ancora qualche anno per poi terminare agli inizi degli anni 2000. Non riuscimmo più a rispettare un principio per noi fondamentale nell’organizzazione dell’accoglienza: mai i soliti bambini nelle solite famiglie. Le famiglie preferivano avere i soliti bambini ed altre associazioni dettero loro questa possibilità. L’esperienza è quindi continuata ma il Comune di Pergine Valdarno decise di non proseguire. Il bilancio che posso fare ora, nel 2019, è molto buono, l’esperienza ci ha arricchito molto. Quel disastro mise la comunità di Pergine Valdarno davanti ad un fatto: anche se l’esplosione era avvenuta lontano, le conseguenze riguardavano e riguardano l’umanità interna.