Essere una bambina, ferita, e aver bisogno di un ospedale. Ma quell’ospedale non c’è più, o meglio: ne rimangono solo alcune macerie. È quanto accade nel video che lancia la campagna “#NonSonoUnBersaglio”, realizzata da Croce Rossa Internazionale e Mezzaluna Rossa per denunciare l’aumento delle aggressioni agli operatori sanitari, non solo in zone di guerra. Non ci sono dati certi, ma quelli che sono stati distribuiti fanno paura: 1.300 aggressioni in 16 Paesi in conflitto o in stato d’emergenza. E di emergenza si parla anche in Italia, dove dei 3.000 casi riscontrati nel 2018 dalla CRI ne sono stati denunciati all’inail appena 1.200.

Se stessimo parlando di un’azienda commerciale, in quei 16 Paesi probabilmente sceglierebbe di chiudere gli stabilimenti per spostarsi in zone più tranquille. Ma chi si occupa di curare feriti e malati in aree a rischio non può o non vuole andarsene, anche se diventa difficile operare quando mancano ospedali e ambulanze e il personale medico è impegnato a curarsi le ferite dell’ultima aggressione.

Video interviste: https://www.youtube.com/watch?v=JDDqee39FcI https://www.youtube.com/watch?v=nEd8CvacXHA

«L’attacco agli operatori sanitari in generale e ai luoghi di cura è doppio: non si colpiscono soltanto quelle persone che non sono un target di guerra e che forniscono aiuto, ma si attaccano tutti i cittadini e i militari che potrebbero essere salvati. Fare violenza su un medico, un infermiere, un soccorritore significa impedire ai civili di poter ricevere le cure adeguate»

denuncia Rosario Valastro, vicepresidente della Croce Rossa Italiana.

Lo scopo di questa campagna internazionale, nata nel 2017 e che si svilupperà per tutto il 2019, non è solo quello di informare la cittadinanza, ma anche «fare advocacy e proporre soluzioni», evidenzia Francesco Rocca, Presidente della Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa oltre che della Croce Rossa Italiana.

La campagna fa parte di una iniziativa internazionale più ampia – “Health Care in Danger” – con cui nel 2017 la Croce Rossa denuncia l’omicidio di alcuni suoi operatori in Afghanistan, Nigeria e Siria. Tra gli obiettivi la creazione di un Osservatorio con cui raccogliere dati e realizzare mappature delle zone più a rischio, così da permettere agli operatori di prestare assistenza nelle condizioni più sicure possibili.

Tre gli obiettivi che la pressione internazionale dovrebbe perseguire:

  • rendere più evidente il fenomeno delle aggressioni agli operatori;
  • fare pressione sui governi che vendono armi ai Paesi in guerra, in modo che tali mercati finiscano;
  • concertare azioni di pressione tra le varie organizzazioni mediche e istituzioni sovranazionali – ad esempio il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – come già avvenuto per la Convenzione di Ottawa (1997) che ha reso illegale l’uso di mine antiuomo.

Molti Paesi, anche formali democrazie come gli Stati Uniti, hanno però inserito l’attacco alle strutture mediche nelle loro strategie militari.

L’episodio più noto di attacco manu militari al ruolo degli operatori sanitari è la bomba che il il 25 marzo 2017 colpisce l’ospedale di Latamneh (Siria settentrionale) di Medici Senza Frontiere uccidendo Ali Ahmed Darwish, uno dei tre chirurghi ortopedici dell’ospedale – per una popolazione di 120.000 persone – e il paziente che stava curando in quel momento, ferendo altre 13 persone. Nel 2016-2017 sono stati 71 gli attacchi contro strutture sanitarie gestite o supportate da MSF, mentre nel 2015 l’ospedale di Kunduz (Afghanistan) viene colpito da una bomba sganciata nei raid aerei degli Stati Uniti, provocando 19 morti, tra cui tre bambini. «Danni collaterali» li definirà l’amministrazione Obama attraverso il colonnello Brian Tribus, l’allora portavoce dell’esercito statunitense in Afghanistan. Nel gennaio 2018 due attacchi aerei dell’esercito turco distruggono parte dell’ospedale di Owdai a Saraqab, governatorato siriano di Idlib, uccidendo cinque persone tra cui un bambino mentre la struttura stava accogliendo i primi feriti di un precedente attacco aereo al mercato locale (11 morti). Nel 2009 un solo attacco a medici e studenti di medicina in Somalia cancella la possibilità di usufruire di aiuto medico per un’intera comunità.

In molti casi i medici vengono arrestati e processati senza prove, come avvenuto in Iraq e Bahrain, dove sono stati accusati, rispettivamente, di aver curato in aree controllate dall’Isis o di aver prestato cure ai manifestanti durante le proteste del 2011-2012.

Per approfondire: dashboard del World Health Organization in cui vengono riportati tutti gli attacchi confermati a strutture e operatori sanitari: https://publicspace.who.int/sites/ssa/SitePages/PublicDashboard.aspx

Sono alcuni esempi di un fenomeno di cui nei media si parla poco ma che riguarda tutti: se iniziano a mancare i medici, gli infermieri o chi guida le ambulanze iniziano a mancare i servizi minimi di assistenza alla salute, così nessuno può ricucire i feriti, curare i malati, portare avanti le campagne di vaccinazione o far nascere i bambini. È il collasso del sistema sanitario e, di fatto, del sistema sociale. E vale sia per i teatri di guerra che per i Paesi in tempo di pace.

La legalità di tutto questo non c’è, nel senso che secondo il diritto umanitario internazionale – nello specifico le Convenzioni di Ginevra del 1949 – ospedali, ambulanze e personale medico non possono essere attaccati, ma già durante l’assedio di Messina (1848) chi prestava soccorso al nemico veniva processato e incarcerato, come nel caso del medico siciliano Ferdinando Palasciano. A proteggere gli operatori sanitari in teatro di guerra, dal 3 maggio 2016 è anche la Risoluzione 2286 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che, è bene ricordare, vede comunque tra i Paesi con maggior forza decisionale alcuni dei principali produttori di armi al mondo. È la “Guerra al terrore” voluta dall’amministrazione statunitense di George W. Bush a modificare questa prescrizione e a trasformare l’imparzialità delle cure mediche in obiettivi da colpire.

Le organizzazioni che operano nella cura di feriti e malati in aree di guerra possono accordarsi con le parti in conflitto grazie ad accordi “di non belligeranza”, operando nella più totale imparzialità – aumentando così i rischi per il personale – oppure possono scegliere di curare solo una delle due parti, definendo gli altri feriti come “combattenti nemici”. Oppure possono decidere di non operare in quel contesto: è quanto avviene, in parte, in quel Sudan che nel periodo 2016-2017 ha visto 50 attacchi a strutture sanitarie e 750 divieti all’accesso umanitario e in cui a rendere più difficile la situazione alla guerra civile si aggiunge la stagione delle piogge. Medici Senza Frontiere ha deciso di sostituire una clinica mobile all’ospedale gestito a Leer, città di nascita del leader ribelle Riak Machar.

#NotATargetItaly

Aggredire personale medico sta diventando un fenomeno sempre più diffuso anche in Italia (3.000 casi nel solo 2018, di cui denunciate all’Inail solo 1.200), tanto che i sindacati e gli operatori del settore parlano di vera e propria emergenza.

Secondo i dati raccolti dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (Fnomceo) tramite un questionario rivolto a tutto il personale medico e sanitario operante in Italia, il 50% degli intervistati ha subito aggressioni verbali nel 2018, mentre solo il 4% ha evidenziato, sul questionario, di essere stato vittima di aggressione fisica. La restante popolazione ha evidenziato la paura di essere aggredita (46%). Tra coloro che hanno denunciato violenza, più della metà ritiene che questa potesse essere prevista, anche se nessuno degli intervistati sa se esistano procedure specifiche. Per arginare il fenomeno, dal settembre 2018 Fnomceo ha stanziato un fondo di 3 milioni di euro per finanziare iniziative di prevenzione contro la violenza sugli operatori sanitari, mentre la ministra della Salute Giulia Grillo ha annunciato via Facebook che «il Parlamento approverà la prima legge contro la violenza sugli operatori sanitari».

Nell’attesa, è bene ricordare che l’Italia svolge un ruolo di primo piano nei contesti in cui il personale medico viene minacciato, soprattutto come fornitore di armi: emblematico in tal senso è il caso dello Yemen, che tra il 2015 e il 2016 ha visto quattro attacchi in dieci mesi a strutture di Medici Senza Frontiere operanti nel nord del Paese al solo scopo di impedirne l’attività di cura. Bombe sganciate dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita e rifornite – come ormai ampiamente denunciato – dalla fabbrica Rwm Italia di Domusnovas (Cagliari). La domanda a questo punto è lecita: chi vende armi che colpiscono ospedali, scuole o attività che nulla hanno a che fare con la guerra, è colpevole più, meno o allo stesso modo di chi materialmente quelle bombe le sgancia?

Tra le altre, la Campagna ha il patrocinio della Presidenza del Consiglio italiana che, durante un convegno promosso dalla CRI a Roma lo scorso 15 febbraio, per bocca del sottosegretario Vito Crimi ha evidenziato come «il soccorritore non può e non deve diventare un bersaglio». Tranne, evidentemente, quando quei soccorritori operano in mare.

+ INFOGRAFICA WHO: https://www.who.int/emergencies/attacks-on-health-care/attacks-dashboard-2018-full.pdf