«Complotto», «attacco al cuore dello Stato», «disastro annunciato»: sono alcune delle considerazioni che ruotano intorno all’incendio che l’11 dicembre 2018 ha investito un capannone (2.000 m2 circa) dell’impianto per il trattamento meccanico biologico (da ora Tmb) di via Salaria 981 a Roma, una situazione di fatto identica a quanto avvenuto nel 2015 e nella quale diossina, idrocarburi policiclici aromatici (Ipa), policlorobifenili (pcb) e polveri sottili (Pm10) hanno sostituito il puzzo dei rifiuti denunciato dal 2013 dai cittadini, costituitisi nel comitato “No Tmb”.

L’incendio è solo il risultato più evidente della cattiva gestione dell’impianto che della intera politica locale sui rifiuti, ma anche – e soprattutto – l’emblema di rapporti di potere che travalicano la mera questione della “monnezza“ romana per arrivare fino alle stanze del Campidoglio.

Dalle radio alla monnezza, storia di via Salaria 981

La storia dell’impianto di via Salaria 981 inizia nel 1953, quando le insegne della “Autovox Spa” portano nei 28.000 m2 dell’area lo sviluppo e la produzione di televisori, antenne e soprattutto autoradio, di cui la società diventa presto leader nel mercato italiano così come oltre confine, tanto da arrivare a 2700 addetti nel 1971. Sarà quello il picco massimo per l’azienda, e di conseguenza per l’impianto, che proprio quell’anno viene ceduta alla statunitense Motorola – che in realtà cerca solo un sistema per entrare nel mercato europeo – per effetto della crisi del settore dell’elettronica italiana dovuta, tra le altre, ai prezzi più bassi dei prodotti importati. Dopo una serie di cambi di proprietà, dalla metà degli anni ’80 la società diventa irrilevante nel mercato dell’elettronica, con gli operai messi in cassa integrazione nel 1988 e infine licenziati nel 1997, quando “Autovox” viene chiusa.

È a questo punto che, con la trasformazione in Tmb, nell’impianto di via Salaria 981 si passa dalle autoradio ai rifiuti, una necessità urbanistica e soprattutto lavorativa più che frutto della programmazione comunale nella gestione dei rifiuti.

A cosa serve un impianto Tmb?

La Capitale produce, da sola, il 10% di tutta l’indifferenziata in Italia: un milione di tonnellate annue su un totale di 1,7 milioni di tonnellate di rifiuti prodotti annualmente dai cittadini romani, 4.700 tonnellate al giorno secondo i calcoli di Legambiente. Una parte viene inviata – di fatto venduta – ad altre regioni italiane (altre aree del Lazio, Toscana, Umbria) o all’estero (Germania, Austria, Portogallo).

Nei Tmb l’indifferenziata viene suddivisa tra frazione secca – poi trasformata in “combustibile derivato” (Cdr) per l’alto potenziale calorifico ed inviata agli inceneritori – e parte umida, trasformata in “frazione organica stabilizzata“ (Fos) ed usata per la copertura delle discariche. È questa parte di immondizia lavorata che, evidenzia una relazione dell’Arpa[1] del novembre 2018 (.pdf), ha «elevate caratteristiche di putrescibilità» – superiore di quattro volte i livelli autorizzati – da cui deriva la puzza che investe i quartieri limitrofi di Villa Spada, Fidene, Serpentara o Colle Salario e che in alcuni casi il vento fa arrivare fino ai Parioli.

Ad oggi i Tmb a Roma sono quattro: quelli di via Salaria 981 e di Rocca Cencia sono pubblici, altri due, privati, sono di proprietà del Consorzio Lazio Rifiuti (Co.La.Ri.) di Manlio Cerroni, che proprio sul business dei rifiuti ha creato il suo potere politico ed economico e a cui probabilmente la giunta guidata da Virginia Raggi affiderà – volente o nolente, la soluzione della crisi nata con l’incendio.

Per approfondire:

Dei quattro impianti, proprio il Tmb di via Salaria 981 è quello maggiormente al centro delle denunce dei comitati cittadini e delle indagini della magistratura: nato non per attività legate ai rifiuti, oggi lo stabilimento si trova in un centro abitato da oltre 40.000 persone, dove le case distano cento metri e l’asilo nido, creato nel 2013, a soli 150 metri. E se il Tmb viene aperto in un’area dove le case ci sono già – per evitare la possibile crisi lavorativa data dalla chiusura della “Autovox Spa” – rimane difficile comprendere come si possa autorizzare l’apertura di un luogo destinato ai bambini nei pressi di un sito (potenzialmente) inquinante e che già emana puzza nelle aree limitrofe.

Chiude Malagrotta, cambiano i quartieri intorno a via Salaria 981

Il Tmb di via Salaria 981 diventa un problema dal 2011, quando la giunta guidata da Ignazio Marino (Pd, 2013-2015), attuando una decisione europea del 2007, chiude la discarica di Malagrotta – la più grande d’Europa, di proprietà di Cerroni – ma non definisce alternative in cui destinare i rifiuti.

Da quel momento i due Tmb pubblici – via Salaria e Rocca Cencia – vengono trasformati anche in siti di stoccaggio, in cui poter depositare fino a 10.000 tonnellate di rifiuti, in impianti pensati per essere svuotati in fretta ed essere sottoposti a manutenzione continua. La situazione in via Salaria 981, così, cambia drasticamente e racconta la storia di operai costretti a lavorare tra miasmi e letterali montagne di rifiuti che possono crollare sotto il peso dei macchinari e che, oltre alla puzza, regalano ai cittadini l’aumento di mal di testa, malattie respiratorie o allergie e di conseguenza un incremento nell’uso (e nell’acquisto) di medicinali; la chiusura dei negozi o la diminuzione del prezzo delle case – un terzo in dieci anni – da cui è impossibile uscire per prendere una boccata d’aria fresca o incontrarsi con gli amici.

Un’area sempre più a rischio desertificazione nella quale, però, cittadini, medici, insegnanti, parroci e politici si sono uniti nel “Comitato No Tmb”, uno dei tanti “movimenti del No” condannati e militarmente repressi perché tacciati di bloccare l’economia del Paese – la stessa accusa che veniva mossa alle indagini di Giovanni Falcone contro la mafia siciliana – ma spesso unica “sentinella civica” contro abusi di potere e grandi opere inutili e imposte.

Il movimento contro il Tmb di via Salaria 981, che il 6 ottobre 2018 ha portato in piazza oltre 2.000 persone, si è dotato anche di un Osservatorio Permanente per sopperire all’assenza della politica, tanto nazionale quanto locale: alla prima i cittadini – anche tramite Giovanni Caudo, presidente del III Municipio ed assessore all’Urbanistica della giunta Marino – chiedono la creazione di una «cabina di crisi»[2] in cui coinvolgere il governo centrale, la Regione e il Comune, mentre a livello locale da oltre due anni va avanti una diatriba tra la giunta Raggi e la Regione Lazio su chi dei due organi istituzionali debba definire il piano rifiuti della città. In realtà, come riporta ad agosto su Internazionale Christian Raimo, giornalista ed oggi assessore alla Cultura del III Municipio.

le responsabilità di un comune o di una partecipata sono comunque condizionate dalle scelte della Regione, cui spetta la programmazione della gestione dei rifiuti e l’autorizzazione degli impianti.

Ma la Regione, sia sotto l’amministrazione di Renata Polverini (Pdl, 2010-2013) che di Nicola Zingaretti (Pd, dal 2013) è sottoposta a procedura d’infrazione proprio per violazione di due direttive europee sul trattamento dei rifiuti (1999/91/Ce e 2008/98/Ce) per aver conferito rifiuti non trattati in alcune discariche regionali (tra cui Malagrotta) e per l’inadeguatezza degli impianti.

Tutto potrebbe risolversi con il commissariamento da parte del governo Salvini-Di Maio, che però ha dimostrato uno scarsissimo interesse per le tematiche ambientali. Un Commissario sui rifiuti, peraltro, Roma l’ha già avuto: si tratta di quel Goffredo Sottile che – dopo aver (non) risolto la questione dei rifiuti in Calabria, per i quali nel 2015 è rinviato a- giudizio nell’ambito dell’operazione “Tabula Rasa” – nel 2016 viene rinviato a giudizio insieme a Giovanni Hermanin, ex presidente di Ama (la partecipata attraverso cui il Comune gestisce i rifiuti) in quanto considerati come “membri di spicco” del sistema di potere creato negli anni da Manlio Cerroni, al quale Sottile nel 2012 avrebbe dato via libera per la discarica di Monti dell’Ortaccio senza che ve ne fossero i presupposti: da qui la contestazione dei reati di falso e abuso d’ufficio.

Dopo l’incendio dello scorso 11 dicembre, mentre gli inquirenti si avviano sempre più lungo la pista dell’atto doloso anche alla luce dello strano spegnimento delle telecamere di videosorveglianza dal 7 dicembre, le indagini sono state affidate al pm Carlo Villani della Procura di Roma, già titolare di una indagine per inquinamento ambientale, malfunzionamento dell’impianto e lavorazione di rifiuti non autorizzata. Reati a cui va aggiunta la denuncia di Arpa su rifiuti classificati come fos (codice Cer 19 05 01) pur non essendolo.

Un incendio tra finti complotti e vero business dei rifiuti

Mentre le indagini giudiziarie sono comunque ancora aperte ad ogni ipotesi, il Movimento5Stelle ha già emesso sentenza definitiva parlando di un «complotto» contro la loro attività istituzionale: è la tesi portata avanti da Paola Taverna (vicepresidente del Senato) e dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa, mentre i capigruppo in Commissione Ambiente – Paola Nugnes e Ilaria Fontana – insieme al vice capogruppo del partito alla Camera Alberto Zolezzi, parlano di vero e proprio «attacco al cuore dello Stato», dando prova di scarsa competenza storica oltre che totale distacco dalla realtà.

Un «complotto» che pare essere più simile ad una cattiva gestione, se già da un anno la Commissione ecomafie del Senato parla di «fragilità, rigidità e precarietà che danno luogo a frequenti interruzioni di servizio e lasciano incombenti minacce di crisi nel ciclo di trattamento e smaltimento» dei rifiuti, evidenziando come per bloccare l’intera gestione dei rifiuti di Roma sarebbe bastata la «momentanea indisponibilità anche di una sola linea di Tmb». L’incendio ha reso inagibile un intero impianto.

Il «complotto» denunciato dal M5S parte comunque da basi di realtà, come i 380 roghi dolosi che tra maggio 2017 e dicembre 2018 in tutta Italia hanno avuto come obiettivo impianti di trattamento rifiuti, discariche, isole ecologiche e aree abusive. I Verdi, oltre ad aver realizzato una mappatura su scala nazionale dei roghi, chiedono l’istituzione di una banca dati comune tra le Procure e l’attuazione dei protocolli della Direzione Investigativa Antimafia.

Cerroni il problema, Cerroni la soluzione?

Il «complotto» denunciato dal M5S potrebbe però declinarsi molto più prosaicamente, nella privatizzazione dei servizi pubblici italiani – e di conseguenza della Capitale obiettivo dell’Unione Europea fin dal 2011. La storia criminale italiana ce lo ricorda: quello dei rifiuti, soprattutto quando si parla di trattamento e smaltimento, è un business multimiliardario. Basti considerare che per la sola raccolta porta a porta – a Roma ferma al 44%, tra i livelli più bassi d’Italia – le quattro società private coinvolte (Sciangalli, Sari, Avr, Multiservizi) hanno vinto un bando triennale da 131 milioni di euro.

Si è parlato spesso di chiudere il Tmb di via Salaria 981, unica soluzione accettata da movimenti e cittadinanza ma che rimane mera promessa delle giunte che hanno guidato la Capitale. Tra il 2016 e il 2017 (giunta Raggi) i rifiuti lavorati nell’impianto addirittura aumentano, passando da 391 a 518 tonnellate al giorno. Ad aumentare è così anche il traffico di camion diretti all’impianto: in media uno ogni 7 minuti, con tutto ciò che ne consegue in termini di maggiore inquinamento.

Camion intorno ai quali ruota un giro d’affari che solo a Roma vale circa un miliardo di euro l’anno. Un giro d’affari che con tali cifre in ballo è terreno di scontro tra sistemi di potere più o meno criminali e che agli occhi del cittadino medio si delinea come l’ennesima “crisi” dei rifiuti.

Una crisi che la giunta Raggi sembra voler risolvere affidandosi di nuovo a Manlio Cerroni e al suo tritovagliatore di Rocca Cencia dove, sotto la gestione della ditta di Giuseppe Porcarelli – accusato con Cerroni di aver volutamente sottoutilizzato i due Tmb di Malagrotta – verranno inviate 100 tonnellate delle 700 prima destinate al Tmb di via Salaria 981[3].

Il “patto extra-istituzionale” (e illegale?) sui rifiuti di Roma

Nel novembre 2018 i giudici della Prima sezione penale del Tribunale di Roma lo assolvono dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti, estinguendo per prescrizione gli altri reati, tra i quali disastro ambientale e e avvelenamento delle acque, ma già nel 2016 Cerroni viene chiamato dalla neo-eletta giunta Raggi a risolvere una delle tante “emergenze” sui rifiuti di Roma. È a questo punto che viene stipulato un “patto extra-istituzionale” in uno studio privato e tra persone che non hanno alcun titolo per rappresentare le istituzioni: lo studio è quello dell’architetto Giacomo Giujusa, di lì a poco nominato assessore all’Ambiente e ai Lavori pubblici del XI Municipio e all’epoca assistente parlamentare di un altro dei presenti all’incontro, quello Stefano Vignaroli – storico attivista contro la discarica di Malagrotta – ed oggi vicepresidente M5S della Commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Tra i partecipanti c’è anche Paola Muraro, che all’epoca non è ancora stata nominata assessore all’Ambiente ed è, semplicemente, una consulente Ama a cui spetta il controllo di alcuni impianti per il trattamento dei rifiuti. Sarà questo il ruolo che le verrà contestato nel rinvio a giudizio in una indagine per truffa che porterà alle dimissioni nella notte tra il 12 e 13 dicembre 2016.

Per approfondire:

Certo, potere e affari di Manlio Cerroni nascono con i “vecchi partiti” – basti considerare che la discarica di Malagrotta viene aperta nel 1974, quattro anni prima della nascita dell’attuale sindaca di Roma Virginia Raggi – ma gli accordi per la soluzione delle “crisi” sui rifiuti dal 2016 vedono come soggetto politico contraente non Forza Italia, il Movimento Sociale Italiano, il Pci o i Democratici di Sinistra ma quel Movimento5Stelle che, fuori dalle istituzioni, denunciava il rapporto di “sudditanza” della classe politica all’imprenditore, chiedendo – proprio con un intervento di Vignaroli in Parlamento il 9 gennaio 2014 (video) che «chiunque in questi trent’anni politicamente, economicamente e moralmente[…]sia stato complice di questo sistema vizioso faccia presto la stessa fine: o a casa o in galera».

Poi chi dovrebbe andare in galera viene assolto e la “moralizzazione” della politica viene dimenticata in un cass(on)etto, mentre i rifiuti continuano ad accumularsi per le strade della Capitale e la giunta Raggi chiede 37 milioni di euro di risarcimento alla giunta Marino per non aver raggiunto il 55% di raccolta differenziata al 2016 promesso nel “Patto di Roma” (partendo dal 31% lasciato dalla giunta Alemanno). Con il Partito Democratico alla guida della Capitale la raccolta si è fermata ad un +10%, ben lontana da quel +1,5% (dal 42,8% al 44,3%) assicurato dall’attuale amministrazione cittadina, in carica dal giugno 2016.

Rifiuti tra “emergenze” e privatizzazione: quale futuro per la monnezza di Roma?

Anche Cerroni rappresenta, però, una soluzione potenzialmente provvisoria: i disservizi di Ama – società partecipata e dunque pubblica – che portano a strade piene di immondizia e alla Tari più alta d’Italia, potrebbero essere sostituiti da una azienda integrata di servizi non pubblica, che la giunta Raggi ha già identificato in quella Acea che nella Capitale già gestisce acqua ed elettricità e che, con l’azionista francese Engie (ex Gas de France) aveva già delineato un progetto industriale con la giunta Marino. Un progetto che, evidenzia ancora Raimo, potrebbe portare i francesi ad entrare anche nel mercato del gas.

D’altronde che in Italia sia necessaria una nuova stagione di privatizzazioni l’Unione Europea lo scrive nero su bianco nel 2011, quando la Commissione fa suo un rapporto della Deutsche Bank – dal titolo “Guadagni, concorrenza e crescita” – nel quale si evidenzia come nel nostro Paese

“I Comuni offrono il maggior potenziale di privatizzazione”

e dove il valore complessivo delle «rimanenti imprese a capitale pubblico» si aggira, a quella data, sugli 80 miliardi di euro (pari al 5,2% del Pil), con altri 70 miliardi ricavabili dalla loro concessione ai privati, in una «operazione [che] potrebbe rafforzare la concorrenza». «Particolare attenzione deve essere prestata agli edifici pubblici», che al 2011 valgono 421 miliardi di euro, di cui 42 miliardi «non è attualmente in uso».

“Per questa ragione potrebbe probabilmente essere messa in vendita con relativamente poco sforzo o spesa. Dal momento che il settore immobiliare appartiene in gran parte ai Comuni, il governo dovrebbe impostare un processo ben strutturato in anticipo”.

La domanda è d’obbligo: è la Deutsche Bank – direttamente o tramite Bruxelles – a suggerire al governo Salvini-Di Maio di inserire nella manovra di bilancio 2018 una norma che permetterà non solo la vendita degli immobili pubblici, ma anche il loro cambio di destinazione d’uso?

Per approfondire:

Per i rifiuti, dunque, sembra riproporsi il copione usato per l’Atac, l’azienda del trasporto pubblico di Roma: portare alla esasperazione i cittadini con una serie di disservizi, “emergenze” e “crisi” come avviene ciclicamente per i rifiuti romani, magari portando a fallimento l’azienda pubblica che se ne occupa con i suoi quasi 8.000 dipendenti (Ama, nel caso specifico) per poi cedere la gestione del servizio pubblico al privato, sfruttando l’indignazione popolare come leva per imbastire referendum dall’esito scontato. E la inadempienza sul referendum per l’acqua pubblica del 2011 dimostra che quando il «privato è obbligatorio e ineluttabile» la politica italiana tende a guardare più al profitto (economico) che ai diritti della cittadinanza.

Per approfondire:

A ben guardare, allora se un esiste davvero un «complotto» sui rifiuti romani esiste davvero, questo andrà non verso la giunta di questo o quel colore politico ma, ancora una volta, a discapito dei cittadini e dei loro diritti.

Una politica che, seguendo la gerarchia istituzionale dal governo centrale alle istituzioni locali, dalla privatizzazione dei beni pubblici al decreto Sicurezza, va verso quel deterioramento della democrazia italiana che sembra sempre più essere l’unica politica realmente seguita dal governo Salvini-Di Maio.

NOTE

1 – L’Arpa, acronimo di Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente, viene creata il 21 gennaio 1994 (legge n.61) in seguito al referendum abrogativo del 1993 su alcuni articoli della legge 833/1978 che toglie la competenza sulle questioni ambientali ai presidi multizonali di prevenzione delle Usl. Tra i compiti dell’agenzia il monitoraggio della qualità di acqua, aria e suolo e la vigilanza sul rispetto della normativa ambientale;

2 – «Li avevamo avvisati, dovevano ringraziarci e invece ci boicottavano» – intervista a Giovanni Caudo di Eleonora Martini, il Manifesto, 12 dicembre 2018;

3 – Secondo quanto ricostruito da Vincenzo Bisbiglia per il Fatto Quotidiano le 600 tonnellate di rifiuti rimanenti verranno suddivise tra i Tmb di Viterbo (100, Viterbo Ambiente); Frosinone (200, Saf) e Aprilia (300, Rida Ambiente);