Municipalities in Transition è un esperimento unico nel suo genere: un concentrato delle esperienze e del know how raccolti dal movimento della Transizione in dieci anni di attività, applicati a 5 comunità in diversi luoghi del mondo. L’obiettivo? Mettere a punto un “sistema operativo” capace di guidare la transizione dei territori verso modelli più resilienti, equi, sostenibili e felici. Dopo due anni di sperimentazione ecco i primi risultati.

Che fine hanno fatto le Transition town? Chi è appassionato di cambiamento sicuramente ne avrà sentito parlare e forse si starà chiedendo cosa sta succedendo all’interno di quel mondo. Be’, da circa due anni a questa parte è in corso un esperimento molto interessante chiamato Municipalities in Transition (MiT) che, visti i risultati incoraggianti, sembra destinato a rappresentare una delle naturali evoluzioni di quel percorso.

L’idea di base è sempre la stessa ed è piuttosto semplice: aiutare le comunità a trasformarsi in sistemi più resilienti, più adatti a fronteggiare le problematiche ambientali ed economiche contemporanee e – perché no – più felici. In pratica gli obiettivi generali della Transizione applicati alla scala di un comune e di tutti gli “attori” sociali che lo compongono: amministrazione, imprese, istituzioni, associazioni fino al singolo cittadino. Purtroppo la parte semplice finisce qui: tutto il resto deriva da un’imponente mole teorica e soprattutto da questi dieci anni di pratica sul campo che la Transizione si è fatta in tutto il mondo, ed è piuttosto complesso. In questo articolo non approfondiremo tutti i dettagli della metodologia (che sarà comunque resa pubblica alla fine della fase di sperimentazione), sia perché richiederebbe una trattazione molto lunga e specifica, sia perché sarebbe comunque quasi impossibile da comprendere per chi non l’abbia provata.

Si tratta infatti di un approccio sistemico e come tutte le metodologie sistemiche produce una sorta di “effetto sfocatura”. Avete mai osservato quelle immagini che a prima vista sembrano delle semplici macchie di colore, ma che se guardate di sbieco, sfocate, fanno emergere figure e disegni? Ecco, è un po’ la stessa cosa: per capire i sistemi complessi e le metodologie che vi si interfacciano è poco utile osservarne i dettagli o molto lungo e tedioso studiare il funzionamento di ogni singolo aspetto. Si capiscono più facilmente con la pratica, così come si impara a scovare le immagini “magiche” provando e riprovando finché il nostro cervello non si abitua e inizia a farlo in maniera semplice e veloce.

Se è inutile scendere in dettagli troppo specifici, può essere comunque interessante capire a grandi linee di cosa si tratta. Diciamo che il tutto somiglia vagamente ad un gioco da tavola: alla comunità  vengono forniti a) una specie di tabellone che rappresenta il territorio e i vari attori che lo compongono e b) un set di regole e strumenti da utilizzare per analizzarlo, valutarne le condizioni di partenza, progettare e compiere delle azioni. Il tabellone serve a visualizzare tutte le cose che stanno succedendo e ad avere una fotografia sempre aggiornata della situazione; le regole e gli strumenti servono a scegliere quali azioni realizzare, come farlo e con chi. Il tutto – come già accennato – finalizzato agli obiettivi della Transizione: affrontare problemi come il clima, il consumo delle risorse, l’inquinamento e – nel mentre – creare un sistema in cui si è più felici.

Dopo circa due anni di sperimentazione, è il momento di osservare i primi risultati. “L’idea iniziale – ci ha spiegato Cristiano Bottone, esperto di Transizione che ha portato questo approccio in Italia – era di rivolgersi principalmente a comuni medio-piccoli, ma poi hanno aderito all’esperimento realtà molto diverse, il progetto pilota brasiliano ad esempio si sviluppa in un quartiere di San Paolo popolato da quasi 350.000 persone. La buona notizia è che questo framework sembra funzionare a prescindere dalla dimensione e necessita di un numero molto limitato di precondizioni per poter essere implementato.

Uno dei punti di forza di questa metodologia sperimentale sta proprio in questa caratteristica: è “a prova di realtà” o almeno questo è uno degli obiettivi che chi l’ha progettata ha considerato prioritario. Significa che, a differenza di molti modelli teorici, è pensata per funzionare in qualsiasi condizione ed ottenere comunque risultati significativi. È sotto molti aspetti più “grezza”, meno sofisticata di altri modelli, ma proprio questa sua natura le permette di continuare a svolgere le proprie funzioni in ogni condizione. Funziona un po’ come per le attrezzature cosiddette military grade (pensate per l’esercito), in cui ogni elemento è progettato per essere il più resistente e adattabile possibile, e l’oggetto nel complesso per continuare a funzionare (almeno nelle sue funzioni essenziali) anche in condizioni estreme, con buona pace dell’estetica.

Il rischio dei modelli teorici troppo eleganti e sofisticati, infatti, è che non si realizzino mai le condizioni di partenza ottimali in cui avrebbe senso utilizzarli e quindi o si accantonano da subito oppure si spendono tutte le energie e le risorse disponibili cercando di ricreare quelle condizioni di partenza, spesso con scarsi risultati. Il modello MiT invece funziona a prescindere e “calibra” il proprio impatto a seconda del contesto partendo da una serie di precondizioni minime: un’amministrazione comunale disponibile al tentativo, un piccolo gruppo di attori della società civile altrettanto disponibili, non importa chi è più motivato o chi attiva il percorso. Anche gli aspetti pratici sono progettati in modo semplice e realistico, ciò significa che, ad esempio, ai partecipanti non viene chiesto di analizzare tutti i dati esistenti relativi alla propria comunità, ma di partire da quelli più facili da reperire. Quindi in un contesto con molti dati disponibili si avranno analisi più dettagliate ed accurate, in uno con scarsità di dati si avranno analisi iniziali più approssimative, ma si riuscirà comunque ad avviare correttamente il processo.

Questa apparente approssimazione ha creato inizialmente non poche perplessità nei partecipanti ai progetti pilota. “All’inizio – ci racconta Cristiano Bottone – molti obiettavano che avremmo ottenuto risultati arbitrari e casuali, dato il poco rigore nella raccolta e analisi dei dati. Questa cosa lasciava i partecipanti davvero perplessi. Ma la perplessità si è trasformata in stupore quando alla fine si arrivava comunque ad osservare una fotografia della comunità incredibilmente aderente allo scenario reale, anche in dettagli importanti e non scontati.”

Complessivamente, l’esperimento di Municipalities in transition sembra aver funzionato ben aldilà delle aspettative. L’obiettivo iniziale di questa fase era capire se il sistema funzionava e se si ottenevano risultati significativi. Attualmente in quasi tutti i casi le comunità interessate, non solo hanno tratto beneficio dall’implementazione di questo modello, ma si stanno interrogando su come integrarlo nel normale funzionamento dell’amministrazione comunale.

Cosa succede adesso? “L’idea – conclude Bottone – è di proseguire con il consolidamento dei progetti pilota e di partire anche in altri territori con una versione ancora più completa della metodologia, incorporando anche tutto ciò che di pratico e teorico si è appreso nella fase dei progetti pilota. Inoltre vorremmo creare dei facilitatori specializzati che possano seguire i processi in loco aiutando le comunità nelle fasi iniziali di uso di questo metodo, visto che per adesso la scelta dei luoghi è stata legata anche al fatto che ci fossero già persone capaci di gestire un processo del genere. Ci piacerebbe che questa cosa che ora chiamiamo MiT, ma che probabilmente prenderà poi un nome più espressivo, diventasse una specie di sistema operativo open source per la gestione delle comunità di tutto il mondo, insomma una versione un po’ più sistematizzata e organica del concetto di transizione utilizzabile da chiunque voglia farlo”.

Articolo di Andrea Degl’Innnocenti

L’articolo originale può essere letto qui