Molto tempo prima, la signora gli si avvicinò e chiese il permesso di parlare. Il silenzio totale diede voce a Maria, vecchina vecchina, fragile fragile, magra magra. La sala satura di caldo e sudore, come unica presa d’aria una porta ad affacciarsi su una tortuosa scala dove ogni volta ci si sbatte la testa, stretta e bassa, accesso alla sala del centro comunitario. Cinque metri per quattro, una porta, una lavagna, banchi e sedie racimolati con qualche donazione dei negozianti della zona. Maria si alza in piedi. Molto tempo prima si scoprì la necessità di dover prendere nota di quanto detto in riunione, altrimenti tutto sarebbe stato dimenticato o addirittura frainteso. E per prendere nota bisognava saperlo fare. Da qualche parte ci sarà pure qualcuno disposto ad insegnare il trucco. Molto tempo prima circolò la voce che il Comune avrebbe garantito i maestri se gli si mettesse a disposizione una sala e un minimo di alunni. La sala c’era. Gli alunni anche. Arrivarono i maestri, la sala di riunione si trasformò in aula di scuola. Maria vuole parlare. Molto tempo prima, Maria non avrebbe mai parlato. Maria sempre zitta. La vergogna di se stessa, della sua gamba storta, della sua miseria le imponevano con forza di macigno il silenzio. Un silenzio cosmico, un silenzio non suo ma di un popolo intero reso invisibile dalla sua stessa paura di esistere.

Molto tempo prima, sul muretto della grande piazza siedono i bambini. Ma quanti sono oggi? Li chiamano meninos de rua. Lei invece vede in ognuno di loro il figlio espulso di una città mostruosa, il figlio reietto che nessuno vuole. No, non è vero. Lei vede in ciascuno di essi la forza della sopravvivenza malgrado tutto. Lei vede in loro la bellezza della sua gente umiliata da secoli di repressione e violenza. Lei vede oro incenso e mirra. Lei vede un mondo di possibilità. Sul muretto a decine. E nella notte della grande piazza, non più delinquenti, ladri, spacciatori, prostitute. Nella piazza, sul muretto, bambini e ragazzi che studiano e imparano. Come la signora Maria nella stanzetta della favela, i bambini della piazza imparano la coscienza di se stessi. E per la prima volta sono padroni del loro presente e del loro futuro. La matita sul foglio: Maria, Paulette, Rafael, Fabiana, Juliano, Rita, Gerson, Adriano… Imparare a scrivere il proprio nome affinché domani davanti all’ufficiale del comune lo si possa imprimere sulla carta di identità. Domani per la prima volta in vita loro faranno i documenti. Domani potranno registrare la loro esistenza.

Molto tempo prima, Maria, quasi ottant’anni, saletta, caldo, gente stipata dappertutto che ormai non ci si sta più, chiede il permesso di parlare. La sua figura non più umile, non più debole, non più timida, non più infima, non più colpevole, non più suddita, non più serva ma con la suprema dignità del momento: Oggi posso morire contenta perché finalmente ho imparato a scrivere il mio nome.

Quelli che chiamano con disprezzo meninos de rua, lei, la professoressa che vede l’oro, li accompagna in Comune a firmare, penna in mano, ogni bambino un nome, un nome per ogni bambino. La professoressa immagina le infinite possibilità della parola, pensa alle molteplici vie dell’essere che si aprono con il saper ordinare gli scarabocchi in lettere, le lettere in parole, le parole in frasi, le frasi in pensiero. La professoressa pensa a Socrate camminando tra i suoi ragazzi in una piazza come questa, sorride, sa di aver compiuto il suo dovere.

Molto tempo prima che il ministro della pubblica istruzione dica quello che ha detto, c’era una piccola saletta di cinque metri per quattro senza finestre, c’era un corso di alfabetizzazione per adulti, c’era una favela sterminata. Oggi nel cuore di quella favela senza fine, la saletta si è trasformata in un Centro di Educazione Unificato, per cinquemila bambini. Maria di quasi ottant’anni è stata la prima.

In quella grande piazza i meninos de rua, i bambini d’oro di quella professoressa non ci sono più. La vita ha estorto il suo tributo di sangue. La morte li ha triturati vivi e vomitati in una fossa comune, la fossa della miseria e dell’abbandono a cui erano destinati fin dalla nascita e contro cui la professoressa ha lottato con tutte le sue forze.

Molto tempo prima che il ministro della pubblica istruzione convocasse la conferenza stampa per presentare il suo piano di governo, Maria nella favela e i bambini di strada sul muretto della grande piazza imparavano a scrivere il loro nome. Molto tempo dopo, il candidato Bolsonaro diceva che i giovani brasiliani hanno una  inspiegabile tara mentale per ottenere un diploma universitario, quando invece un corso tecnico, come ad esempio, aggiustatore di lavatrici, in breve tempo ti farebbe guadagnare un bellissimo stipendio. Oggi il ministro con voce da topo, aspetto da topo, mente da topo, dice che il suo compito è quello di salvaguardare i valori della famiglia e della patria. Oggi il ministro-topo riprende le parole del padrone e decreta la sentenza di morte per il diritto universale allo studio: l’università non è per tutti, ma per l’élite culturale della nazione.

A tutti gli alunni del corso di alfabetizzazione per adulti; alla signora Maria, a Paulette, a Rafael, a Fabiana, a Juliano, a Rita, a Gerson e Adriano, ai meninos de rua: l’oro del mio paese.