L’economia si è talmente fatta politica, a dispetto di quello che si è sempre sostenuto coi governi tecnici, che questa ha ridisegnato le categorie politiche e i suoi punti di riferimento: sinistra e destra.
Infatti quello che appare evidente da anni è che l’agenda politica in cui si scontrano i partiti o movimenti si caratterizza o per una visione economica liberale (centrosinstra e centrodestra) oppure per una visione economica in cui lo stato vorrebbe recuperare la sovranità perduta. Queste due categorie (liberali-sovranisti) risultano ormai prevalenti e più importanti rispetto alla precedente: non è un caso se abbiamo assistito ad una serie di sconvolgimenti di alleanze che vanno dal Nazareno a En Marche, per passare dalla Grosse Koalition, fino all’avvento del governo giallo-nero in Italia.

Secondo “Comunismo e Comunità”, rivista di Preve, da cui Fusaro riprende gran parte delle sue tesi, afferma che “L’avvicinamento ideologico [tra destra e sinistra] è avvenuto, non certo tramite una convergenza verso il concetto eterno di destra, ma tramite una convergenza (“da destra” e “da sinistra”) verso l’ideologia liberale (versione neo-liberale) che, per sua stessa natura, ha un volto di “destra” e un volto di “sinistra” del tutto compatibili con il proprio nucleo fondamentale. L’avvicinamento materiale di tutte le forze politiche, contestualmente, è avvenuto tramite l’aver abbracciato posizione politiche del tutto favorevoli alle classi dominanti, allo sfruttamento e l’annichilimento del lavoro in tutte le sue forme e alla distruzione della democrazia tramite l’adesione totale alla tecnocrazia sovranazionale. ”

Storicamente, durante la loro nascita, queste categorie estreme erano stranamente molto più vicine di quelle attuali e avevano una visione convergente del ruolo dello stato nell’economia.
La destra e la sinistra come posizioni politiche nascono infatti durante la Rivoluzione Francese, durante una delle prime sedute dell’Assemblea Generale si divisero coloro che erano favorevoli ad accordare il veto al re, nobiltà e clero che sedevano alla destra, da coloro che invece erano contrari, alla sinistra del Presidente, essenzialmente il Terzo stato. Da allora si crearono due categorie che indicano due modi diversi di intendere la società e lo Stato. Da un punto di vista politico e valoriale la sinistra si definiva tale perché riformista, progressista o rivoluzionaria e cassa di risonanza delle istanze popolari, rispetto ad una destra portavoce delle classi agiate, portatrice dei valori tradizionali della famiglia e della nazione quindi del re.

Se riprendiamo però quanto accaduto pochi mesi prima di questa disposizione assembleare notiamo che nel Terzo Stato convivevano ambiguamente due anime distinte: quella della borghesia liberale e quella delle masse popolari (montagnardi e girondini per semplificare).

Alla vigilia della Rivoluzione, queste due visioni politiche si riflettevano ancora prima nelle due correnti economiche che si affrontavano a corte: quella di Turgot, fisiocratico che riteneva controproducente l’intervento dello Stato nell’economia, il cui seguito sarebbe stato il liberalismo di Smith, e dall’altro lato quella dello svizzero protestante Necker, le cui dimissioni imposte dal Re contribuiranno a suscitare le famose sommosse rivoluzionarie del luglio 1789. Questi era infatti un pragmatico successore di Colbert e sostenitore dell’intervento dello Stato nell’economia.

In un’ottica che ci può apparire lontana e stramba, il Re a quell’epoca era visto come colui che doveva assicurare il benessere della popolazione e quindi colui che doveva nutrirla, al quale si chiedeva di distribuire il pane per quietare la fame delle popolazioni dei sobborghi parigini che andarono a cercarlo a Versailles (“Ramenons le boulanger” “Riportiamo il fornaio a Parigi”, riferendosi al re). Contrariamente a quello che si può pensare il re, impersonando lo Stato e avendone l’autorità, era colui che poteva porre delle regole per gestire e indirizzare le risorse senza curarsi troppo delle regole della mano invisibile.
Necker era molto popolare a Parigi e dintorni per via di questo interesse diretto a soddisfare le necessità primarie della popolazione, perfettamente in linea con il modello di monarchia assoluta, mentre il liberista Turgot era colui che, seppur sostenuto dalla borghesia dell’appena nata prima rivoluzione industriale, incontrava il mal contento della popolazione che, a causa della sua politica del “lasciar passare”, non capiva le logiche “razionali” della mano invisibile rispetto alle necessità non negoziabili della propria fame.

Questa diversa visione dell’economia e sopratutto del ruolo della Stato in essa, struttura in seguito la differenza politico-economica tra destra liberale e sinistra: volendo semplificare Adam Smith da un lato e Keynes ed economia pianificata socialista dall’altro.
Con lo spostamento verso il centro liberale delle politiche economiche di quello che negli ultimi anni è stato definito il centrosinistra e il centrodestra, soltanto gli estremi (destra e sinistra) hanno conservato ancora un’ opposta visione del ruolo dello stato nell’economia.

Se la monarchia assoluta aveva dalla sua una legittimità politica derivante dalla tradizione e dalla storia, i totalitarismi, che crearono successivamente la loro legittimità a partire dalla rievocazione di antichi miti nazionali, si reggevano sul consenso popolare ed erano obbligati ad accontentare i bisogni di una popolazione che aveva bisogno di essere rassicurata da un qualsiasi “fornaio”. Tornò quindi utile rendere l’economia uno strumento statuale di politica nazionale.
Secondo la teoria del ferro di cavallo di Jean-Pierre Faye gli estremi coinciderebbero, o avrebbero talmente tanti punti in comune da rigettare le differenze tra destre e sinistre liberali ad un centro, considerato come un estremo, che nulla oppone alla mano invisibile.

Che poi questa suggestiva teoria di principio sia superata da una realtà che vede una destra solitamente neo-liberista, questo è provato dai provvedimenti che vanno da Raegan, passando per la Thatcher fino alla flat tax di Salvini. Il nazionalismo non fa altro che riproporre anacronisticamente su scala nazionale la concorrenza che esiste su scala globale, favorendo storicamente i fenomeni di concentrazione, ammantando il tutto con la retorica della difesa dell’identità.

L’anticapitalismo di destra nazi-fascista costruì il suo consenso contro le plutocrazie europee o internazionali, confondendo gli attacchi contro il liberalismo politico con quelli contro il liberalismo economico, salvo poi colludere sistematicamente con la grande industria che lo ha sempre finanziato, come lo dimostra l’eliminazione delle S.A di Röhm che ambivano ad una seconda andata di rivoluzione anti-borghese o delle proposte socialiste presenti nel patto del Sansepolcro.
In periodo di crisi numerosi sono numerosi coloro che rivisitano queste due categorie (destra-sinistra) e che rimettono in discussione la loro minor precisione descrittiva da un punto di vista sopratutto di politica economica rispetto a quello della politica valoriale.
Su questa possibile convergenza di vedute anti-capitalistiche, mentre il centrosinistra fa opposizione al D.E.F. del governo giallo-nero appellandosi allo spread e ai mercati, rivelando ancora una volta in quale categoria esso debba posizionarsi, l’estrema sinistra dibatte intorno ad alcuni temi che sono legati ad identità, comunità e patria, storicamente appartenenti (o meno) all’estrema destra.
Ad essa si aggiungono gli antichi dibattiti sul socialismo in un solo paese o internazionale che si ripropongono proprio per l’importanza assunto della questione delle derive antipopolari dei governi sovra-nazionali e dei mercati.