Era all’incirca fine agosto quando Di Maio avvertiva minaccioso l’Europa: “Se l’Unione europea si ostina con questo atteggiamento, se domani dalla riunione della Commissione europea non si decide nulla e non decidono nulla sulla nave Diciotti e sulla redistribuzione dei migranti, io e tutto il Movimento 5 stelle non siamo più disposti a dare 20 miliardi all’ Unione europea“.

Quella frase mi aveva colpita: credo mi disturbasse quel “20 miliardi” buttato lì. Certo, che i politici spesso usino i numeri a sproposito forse capita un po’ da sempre e un po’ ovunque, tuttavia la mia percezione è che ultimamente si sia sdoganata l’abitudine di inventare dati a caso, mentendo all’opinione pubblica per accattivarsene il favore pur sapendo di mentire. Ed è obiettivamente difficile confutare questi dati: non perché corrispondano al vero (sono spesso falsi), ma perché qualsiasi chiarimento o dato obiettivo finisce nel calderone, e fa molta meno notizia delle dichiarazioni che cavalcano l’onda del risentimento verso quello che l’Unione europea è diventata negli ultimi anni (o per lo meno, la percezione che ne abbiamo).

Così, quando Europe Direct Trentino ha organizzato un incontro pubblico dal titolo “Il bilancio europeo: cos’è e come lo vorremmo”, ho deciso di andare ad informarmi: io stessa, pur essendo giornalista, non avevo avuto modo di approfondire gli aspetti reali dei fondi dati all’Unione, ed avevo solo un’idea piuttosto vaga di come venissero utilizzati. Grazie all’Unione europea ho potuto studiare, lavorare e fare volontariato in tanti Paesi diversi, scoprendone lingue e culture: per questo per me l’Europa è un qualcosa da preservare e da portare avanti come progetto, un qualcosa in cui credo quasi a prescindere, un po’ come un dogma. Un dogma che però ho deciso di mettere in discussione attraverso l’unico strumento possibile: l’informazione autentica.

Questo anche perché a fine maggio 2019 si voterà alle europee: sarà un voto importante, considerato anche il cambio di timone nei governi di numerosi Paesi dell’Unione. A scontrarsi due visioni antitetiche: da un lato l’idea legata ai vecchi stati nazione del secolo scorso – dove i Paesi sono realtà forti e sovrane e decidono in base ai propri interessi individuali; dall’altra l’idea futuristica di andare verso un’Europa delle regioni, dove gli Stati come entità singole perdono potere a favore di un’ideale di Europa senza frontiere dove prevalgono gli interessi di tutti. Una paura collegata a questa idea di Europa (al netto degli interessi economici che va a toccare) è una percepita perdita di identità: tuttavia le identità non sempre corrispondono ai confini tracciati all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Se nel nostro piccolo pensiamo anche solo al Trentino-Alto Adige e ai territori dell’Istria e la Dalmazia, la contraddizione è evidente. Ciò detto, è innegabile che la posizione di molti governi attuali – incluso quello italiano – segue la prima strada: fedele al motto “prima gli italiani”, esautora l’Unione europea. Ma ci conviene?

L’Unione europea è fortemente presente nella nostra quotidianità: una stima evidenziata durante l’incontro riporta che circa il 60-70% delle leggi approvate in ogni Paese membro sono semplici recepimenti delle normative europee. Anche senza il dato statistico, lo possiamo osservare in autonomia: con la tessera sanitaria veniamo curati in ogni Paese dell’Unione, come se fossimo suoi cittadini. Possiamo viaggiare e lavorare in ogni Paese senza avere bisogno di visti o passaporti; le riforme recenti sul roaming telefonico hanno fatto sì che chiamare con un cellulare da Palermo a Helsinki costi come chiamare da Trezzo sull’Adda a Voghera. Pensiamo poi a tutti i prodotti certificati DOP (Denominazione di Origine Protetta) e IGP (Indicazione Geografica Protetta): l’Italia è il luogo con il maggior numero di prodotti agroalimentari certificati, tutti consultabili sul sito dedicato dell’Unione europea. Ci sono poi le etichette che troviamo su tutti i prodotti: è stata l’Europa ad imporre l’obbligo di segnalare provenienza, ingredienti, quantità, ecc. E sempre l’Unione, attraverso questo sito, mostra in maniera del tutto trasparente i prodotti non alimentari che sono stati tolti dal mercato perché analizzati e riscontrati tossici per i cittadini. E questi sono solo alcuni esempi di come l’Europa è presente nelle nostre vite in maniera positiva: questi aspetti valgono i 20 miliardi che, stando a Di Maio, versiamo all’Europa?

Iniziamo con il precisare – come hanno fatto altre testate prima di noi – che l’Italia non versa 20 miliardi l’anno all’Unione europea. A seconda degli anni, in media si parla di 13 miliardi; di questi, circa 10 ritornano sotto forma di contributi per attività specifiche. Una differenza di circa 3 miliardi, che allinea Italia, Germania, Regno Unito e Francia come uno tra i maggiori contribuenti. Di questi 10 miliardi, circa 8 provengono dal PIL e 2 dall’IVA; in gergo ciò significa che siamo dei contribuenti netti. Chi invece riceve più fondi di quelli che versa? Allo stato attuale sono soprattutto Polonia, Grecia, e Romania – che al loro interno presentano zone particolarmente svantaggiate.

Questi 3 miliardi sono tanti o pochi? Dipende. Sicuramente sono fondi importanti se presi singolarmente; se tuttavia guardiamo al complessivo il quadro cambia. Il bilancio di previsione dello Stato italiano (dati del ministero) è di circa 606 miliardi; il bilancio di previsione dell’Unione europea è di circa 157 miliardi. È chiaro che non c’è proporzione, e da un lato è normale che sia così: l’Italia con quelle risorse deve anche pagare pensioni, sistema educativo, sistema sanitario. Lo squilibrio tra i due bilanci è comunque evidente, come è evidente che 3 miliardi a fronte di 606 sono le classiche noccioline.

Detto questo, l’Unione europea cosa ci fa con i suoi 157 miliardi di bilancio di previsione? I fondi vengono ripartiti in questo modo: 39% ad agricoltura, ambiente e sviluppo rurale; 34% a coesione economica, sociale e territoriale (per fare sì che le zone oggi più povere crescano e si allineino a quelle più ricche); 13% a competitività per la crescita ed il lavoro (qui troviamo tutti i finanziamenti di cui usufruiscono i giovani per studiare all’estero); 6% a interventi a livello mondiale (peacekeeping, aiuti umanitari, ecc.); 6% spese di amministrazione; 2% a sicurezza e cittadinanza. In pratica, il 6% di questi fondi vengono utilizzati per pagare il personale che lavora nelle istituzioni europee, mentre il 94% viene ridistribuito tra i Paesi membri.

Questo vuol dire che non ci sono sprechi e che è tutto meraviglioso? Va da sé che tutto è perfettibile: il fatto ad esempio che l’Unione europea abbia due sedi – una a Bruxelles e una a Strasburgo – è indubbiamente uno spreco a cui si potrebbe e dovrebbe ovviare. Tuttavia quel 6% di fondi per i dipendenti fa un po’ sorridere se si considera l’apparato burocratico italiano: ci sono 32.000 persone che lavorano alla Commissione europea, 75.000 al Parlamento, e 35.000 al Consiglio: un totale di 142.000 addetti ai lavori; i dipendenti pubblici in Italia sono invece 3.257.014 (dati 2015). Certo, come abbiamo evidenziato lo Stato italiano deve gestire molte più attività rispetto all’Unione europea; ma contrariamente all’Unione europea non è così trasparente nella gestione delle risorse. La questione della trasparenza è centrale: tutte le informazioni dell’Unione europea sono pubbliche, basta avere un collegamento internet e la voglia di realizzare delle ricerche mirate. L’unica difficoltà è che la mole di informazioni è obiettivamente elevata, e di conseguenza ci vogliono tempo e competenze (anche solo per capire quello che si legge). Se non si hanno né il tempo, né le competenze niente paura: ci sono i centri Europe Directsparsi su tutto il territorio nazionale (qui è reperibile un elenco esaustivo) ad aiutare. Uno strumento prezioso per capire come riuscire a votare in maniera consapevole e mirata, a prescindere dal proprio schieramento di appartenenza.

Articolo di Novella Benedetti

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