Stefano Iannaccone è un giornalista impegnato: ha collaborato su politica e cronaca estera con numerose testate e dall’anno scorso è addetto stampa di Possibile. Ha lanciato il sito e la campagna “Addio alle Armi”.

Ci puoi spiegare l’iniziativa e raccontare come sta andando?

Addio alle armi è nata come una campagna di Possibile, insieme a una serie di altre mobilitazioni messe in cantiere da Giuseppe Civati e proseguite dall’attuale segretaria Beatrice Brignone. L’iniziativa, tuttavia, vuole raccogliere tutte le energie e le sensibilità sul tema: è stata pensata come un impegno culturale e politico, insieme. Il sito addioallearmi.it è aperto a ogni contributo, non c’è bisogno di tessere per aderire alla mobilitazione. Nel dettaglio la campagna si muove su due binari. Il primo è quello più ‘tradizionale’, cioè il disarmo globale, partendo da una riduzione delle spesa militare internazionale e ovviamente Italia compresa. Non dimentichiamo che le bombe italiane vengono vendute all’Arabia Saudita e sganciate in Yemen. Il secondo binario, invece, è quello più prettamente italiano con l’attualità della riforma della legittima difesa. Formula dietro cui si cela il desiderio di mettere più armi nelle mani degli italiani. Seguendo quel modello svizzero, molto caro alla Lega di Salvini.

L’informazione può fare di più per combattere questa idea di destra più armi uguale più sicurezza?

I professionisti dell’informazione possono fare di più con un gesto semplice: facendo con rigore il proprio lavoro. E quindi raccontando i dati e le storie che ci sono dietro a quei numeri. Parlo di tragedie quotidiane di armi da fuoco ‘legalmente detenute’, che sono strumento di morte. Qualche giorno fa sul sito abbiamo pubblicato un intervento di Gabriella Neri, che ha perso il marito, 8 anni fa, per mano di un uomo armato. Sono stragi di famiglie, donne uccise, uomini assassinati, perché hanno iniziato una relazione con una ex, o bambini vittime di raptus. Questi episodi di cronaca vanno messi insieme, non sono accadimenti ‘alieni’, perché formano il contesto complessivo del fenomeno ‘armi’. Avere pistole e fucili in casa non porta più sicurezza: favorisce delitti e, d’altra parte, spinge i ladri ad armarsi prima di entrare in un appartamento. Un autentico far west, appetitoso per chi produce e vende armi.

L’industria italiana delle armi di vario tipo è una lobby potente che ha condizionato i governi di ogni segno da tanti anni: cosa fare per invertire questa tendenza?

Il primo passo è una legge che restringa la concessione delle licenze. Dal 2016 al 2017 c’è stato un aumento di oltre 80mila licenze sportive. Davvero crediamo che sia stato un boom di passione per il tiro sportivo? Siamo seri. Ecco che bisogna partire da una norma che faccia conservare munizioni e armi ai poligoni, come prevedeva un disegno di legge presentato nella scorsa legislatura. Poi è necessario provvedere a fare verifiche più stringenti sui requisiti per ottenere una licenza. È mai pensabile persone con problemi psichici accertati abbia armi a disposizione?

Le città umane sono città sicure: cosa ha fatto e cosa deve fare la politica per promuovere e realizzare questa idea?

Nessuno ha la soluzione in tasca. Ma sono certo che una serie di misure consentirebbero un miglioramento della situazione. Cerco di fornire un elenco molto rapido: la promozione politiche sociali efficaci, garantire lavoro e sostegno alle persone più deboli, il contrasto al degrado nelle periferie, l’attuazione di politiche concrete di integrazione. Bisogna creare contatto tra le persone: la reciproca conoscenza aiuta a eliminare la diffidenza

La storia dimostra (il caso Osella con le mine) che è possibile riconvertire senza perdere posti di lavoro: sarà ora di dire, anche a sinistra, che i posti di lavoro nei comparti industriali si difendono riconvertendo le industrie inquinanti e belliche?

È un impegno fondamentale per differenziare la sinistra, offrendo soluzioni concrete. Purtroppo la sinistra, per anni, ha imitato la destra: dall’immigrazione alla legittima difesa, è diventato difficile trovare le differenze. La riduzione delle spese militari non è infatti solo un’ossessione ideologica, come dicono i sostenitori dell’industria bellica, ma è una concreta opportunità. Nessuno vuole togliere posti di lavoro, l’idea è quella di renderli migliori. Pensiamo un attimo: tutte le competenze impiegate oggi per costruire armi possono essere riconvertite per progetti decisamente meno impattanti. Sull’ambiente e di conseguenza sulla qualità della vita di ognuno di noi.