Il punto quindicinale con Domenico Moro, economista e saggista, verte su tematiche quali immigrazione, economia e proposte – da sinistra – di analisi della situazione attuale, interpretando la critica all’Ue  e alla moneta unica da marxisti e non da neoliberisti, così come fa la cosiddetta ‘destra sovranista’. In questi giorni, al termine dei ballottaggi in alcune città d’Italia, commentatori e notisti politici si sono affrettati a rilanciare la validità del progetto “vincente” del centrosinistra (si veda la vittoria di Caudo in III municipio a Roma, esaltata anche da Gianluca Peciola, già Sel). Tuttavia, l’idea di un Ulivo 3.0 è da considerarsi non solo obsoleta, per Moro, bensì fuori dalla storia già dal 2006.

Giovanni Tria, nel corso delle celebrazioni del 224esimo anniversario della Guardia di Finanza, ha dichiarato di «gestire l’economia in continuità con il passato». Il “Governo del Cambiamento” è uguale al precedente?

«Non bisogna semplificare. Questo governo, sarà insieme uguale e diverso da quelli precedenti. Sarà diverso perché non appare, a differenza dei governi precedenti, appiattito sull’Europa, e cercherà di ottenere dall’Europa margini di flessibilità maggiori sul bilancio e di modificare i rapporti di forza tra Italia e i due stati-guida europei, soprattutto con la Francia e la Germania. Infatti, l’alleanza Lega-M5S esprime gli interessi di settori del capitale danneggiati dall’euro, più nazionali e meno cosmopoliti e internazionalizzati di quelli di cui il Pd si è fatto espressione negli ultimi anni. Tali settori sono rappresentati non solo dalla piccola e media impresa della manifattura e dei servizi, ma anche dagli istituti finanziari, molto potenti nel nostro Paese, messi in difficoltà dall’unificazione bancaria e finanziaria europea. Poi ci sono le grandi multinazionali di stato, a partire da Eni e Finmeccanica, che si sono ritrovate prive del sostegno di una politica nazionale forte negli ultimi anni, specie nell’area mediterranea.

Ma, proprio per le ragioni suddette, al tempo stesso questo governo sarà uguale, dal punto di vista di classe, a quelli precedenti. In primo luogo perché la maggiore flessibilità e i migliori rapporti di forza nazionali – ammesso che saranno raggiunti – verranno utilizzati a favore del capitale, imprese e banche, e non delle classi subalterne. L’idea è quella di favorire le imprese, dai cui guadagni a cascata beneficerebbero i poveri e i lavoratori: un’idea neoliberista che si è dimostrata sempre fallace negli ultimi trent’anni. La “pace fiscale” e la flat tax, che trasferiscono ricchezza alle imprese e ai più ricchi, sono esemplificative dell’orientamento di classe del governo e confliggono con il reddito di cittadinanza, creando una contraddizione, foriera di spaccature, con il M5S.

Soprattutto, questo governo sarà nella sostanza uguale ai precedenti perché i settori di classe più forti che stanno dietro la coalizione di governo non vogliono l’uscita dall’euro, unica condizione per soddisfare gli interessi delle classi subalterne e soprattutto per fare, tra le altre mille cose necessarie, quegli investimenti adeguati a creare lavoro (e non sussidi), risolvendo il problema della disoccupazione e della sottoccupazione in Italia. In sintesi, l’orientamento di fondo del governo (soprattutto della Lega, che appare avviarsi a egemonizzarlo), malgrado il populismo ideologico, è intimamente neoliberista e quindi non improntato a un effettivo cambiamento».

La linea economica di Tria è ben nota (già protetto di De Michelis, poi berlusconiano, ha contribuito alla scrittura del programma di Forza Italia per le precedenti elezioni): si può dire, provocatoriamente parlando, che le posizioni economiche di +Europa e della Bonino (che tempo fa tu contestavi) alla fine dei giochi siano diventate egemoni nel nuovo governo?

«Be’ non è esattamente così. La Bonino è la maggiore rappresentante dell’orientamento cosmopolita e del capitale transnazionale e fautrice di una austerità di bilancio da far impallidire persino Mario Monti. Tria rappresenta l’espressione di una tendenza diversa, di moderato sostegno statale a certi settori del capitale italiano, in linea con l’esperienza del berlusconismo. L’aspetto che va considerato è che la linea Bonino appare estremistica anche a settori crescenti del capitale. Dieci anni di crisi e soprattutto il peggioramento dei rapporti di forza dello Stato e del capitale italiano a livello europeo hanno dimostrato che un certo cambiamento di rotta è necessario. Il problema è che, data la base di classe della coalizione al governo, non si tratta di un cambiamento di rotta di cui il lavoro salariato beneficerà. Questo perché, come ha avvertito Tria, bisogna tenere sotto controllo deficit e debito pubblico, che – a meno di non ricorrere a misure drastiche come l’uscita dall’euro –, rimane un vincolo che impedisce vere politiche espansive. Forse qualche contentino verrà dato, ma al prezzo di vedersi ridotto un altro pezzo dello stato sociale, ad esempio una qualche forma, molto ridimensionata rispetto alle promesse, di reddito di cittadinanza al prezzo di ulteriori tagli alla sanità o altrove».

Pochi giorni fa Alessandro Robecchi sul «Fatto Quotidiano», ha scritto che le dichiarazioni di Salvini a proposito di Rom, schedature e immigrazione sono «polpette per i cani di Pavlov, mentre i padroni fanno festa». Come si reagisce, da sinistra, alle “polpette salviniane”?

«Come ho detto, le condizioni materiali definite dall’euro e dal debito non consentono alcuna redistribuzione di reddito verso le classi subalterne, a parte qualche contentino, in ogni caso inadeguato a soddisfare la domanda di milioni di disoccupati. Di conseguenza va messa in atto, da parte del governo, qualche scelta che permetta di tenere nel blocco sociale, cui Lega e M5S danno espressione, la sua base di massa, ossia i milioni di lavoratori industriali del Nord e quelli dei servizi e i disoccupati del Sud. È in questo senso che va interpretata la lotta della Lega contro l’immigrazione.

Quella contro gli immigrati è anche una abile mossa comunicativa, che ad esempio mette al centro dell’attenzione il respingimento dell’Aquarius, mentre altre navi vengono accolte nei porti italiani. La Lega non vince soltanto e soprattutto perché ha dimostrato capacità amministrative locali (scarse in alcune zone di suo radicamento tradizionale) o perché ha una struttura organizzata e radicata (prende voti in Toscana, a Roma e persino al Sud dove è inesistente), bensì perché ha costruito una chiara e organica visione ideologica della realtà italiana in cui l’immigrazione ha un posto rilevante. Per queste ragioni è necessario, se si vuole ricostruire una sinistra adeguata alle condizioni attuali, che si risponda sul piano ideologico e sul piano comunicativo in modo adeguato. Non ci si può limitare a contenuti e stili comunicativi della tradizione cattolica o del cosmopolitismo capitalistico. Il nostro obiettivo deve essere convincere il lavoratore e il disoccupato italiano che il lavoratore e il disoccupato straniero non sono nemici ma potenziali alleati di lotta. In primo luogo, non va ceduto neanche un millimetro di terreno allo spirito antimmigrati, rifiutando la vulgata dell’invasione. Anzi, bisogna smascherare la retorica leghista, che nasconde una politica neoliberista atta a mantenere in Italia milioni di persone, straniere e italiane, sottopagate e senza diritti.

In secondo luogo, bisogna dire e far capire che la solidarietà verso gli immigrati è non soltanto una questione di umanità ma è una questione di classe, di interesse di classe. In terzo luogo, che la mancanza di lavoro e di servizi non si risolve con la cacciata degli immigrati, perché dipende da ben altro, cioè dal combinato disposto della crisi capitalistica e dell’euro, che colpisce tutti, italiani e stranieri. Non ci può essere politica di sinistra efficace sull’immigrazione, se non inquadrata all’interno di una politica anti-austerity e anti-euro a favore dell’occupazione per italiani e immigrati. Oltre al limite ideologico, centrale in questo momento, c’è quello organizzativo, decisivo sulla lunga distanza. A tal proposito bisogna incrementare il lavoro delle organizzazioni sindacali (ancora troppo limitato) e politiche (quasi insistente) rivolto a organizzare i settori del lavoro immigrato, ispirandosi alle esperienze migliori, come quelle dei lavoratori della logistica. Difficile? Sì, ma non ci sono scorciatoie».

Sul nuovo Parlamento. La svolta a destra a seguito delle elezioni del 4 marzo ha fatto sì che soprattutto la socialdemocrazia sia stata spazzata via: Leu possiede una porzione decisamente ridotta di Parlamentari rispetto a quanti ne aveva SEL a seguito dell’Alleanza “Italia bene Comune” e il gruppo è composto per la maggior parte da transfughi del PD. La socialdemocrazia italiana ha finito per essere percepita come la copia sbiadita della destra ed è stata punita con ancora più destra? Che ne pensi?

«A essere stati penalizzati in Italia e in Europa sono stati tutti e due i settori politici che si sono fatti promotori delle politiche di austerity e dell’integrazione europea negli ultimi vent’anni, il Partito popolare europeo (Ppe) di centro-destra e il Partito socialista europeo (Pse) di centro-sinistra. Forza Italia alle ultime elezioni politiche è andata ancora peggio del Pd, perdendo voti a favore del partito euroscettico per eccellenza, la Lega. Certo i partiti del Pse in taluni Paesi sono andati peggio di quelli del Ppe, ad esempio in Grecia e in Francia sono pressoché spariti i rispettivi partiti socialisti, e questo è dovuto al fatto che, essendo tradizionalmente rappresentanti di certi settori popolari, sono stati maggiormente puniti dall’essersi fatti promotori delle politiche di austerity».

Giorni fa è stata lanciata, di nuovo, l’idea della ricostruzione del centrosinsitra da parte dell’associazione “Futura”, capitanata da ex Sel quali Furfaro e Pizzolante: perché, secondo te un modello così fallimentare come il centrosinistra continua ad essere riproposto sic et simpliciter?  È opportunismo, «cretinismo parlamentare» o cos’altro secondo te?

«Al di là del progetto di “Futura”, nella sinistra italiana si pensa erroneamente che il problema sia mettere tutti insieme, al di là di differenze anche importanti, e che la soluzione a tale questione risieda nel trovare la formula organizzativa giusta. Al contrario bisognerebbe discutere di contenuti e di posizionamento di classe. Molta parte della sinistra è incapace di interrogarsi sulle ragioni del suo fallimento, perché ciò implicherebbe ritornare a quei principi che sono stati stigmatizzati come ormai inattuali e antistorici e che invece riemergono prepotentemente alla superficie, travolgendo quelli che avevano fatto di tutto per rimuoverli, in linea con l’ideologia dominante. Si tratta dei principi che mettevano al centro della politica di sinistra gli interessi di classe e la natura intrinsecamente instabile e contraddittoria del modo di produzione capitalistico, e che individuavano già nell’Europa di Maastricht una entità funzionale agli interessi del grande capitale.

Il centro-sinistra era già fuori dalla storia nel 2006, alla vigilia della maggiore crisi del capitalismo dal ’29 e prima che fosse dimostrato che l’euro impone rigidità tali da impedire di affrontare le crisi del capitale senza devastare il terreno sociale. Per queste ragioni, oggi riproporre il centro-sinistra, cioè una mediazione fra interessi di classe opposti, è del tutto irrealistico. Analogamente sarebbe improponibile proporre alleanze o interlocuzioni con chi (persone e partiti) si è fatto artefice o non si è opposto adeguatamente alle politiche di austerity e non solo è screditato agli occhi di milioni di lavoratori italiani, ma rifiuta di prendere ora una posizione conseguente su temi centrali come l’Europa. Quello che va fatto è costruire in primo luogo un orientamento autonomo e alternativo sia rispetto al Pd e al centro-sinistra cosmopolita sia rispetto al governo Lega-M5S. E sulla base di questo orientamento costruire un fronte, una coalizione (o come si preferisce chiamarla) che metta insieme tutte le forze e le soggettività politiche, sindacali e associative che siano schierate sul versante corretto dello scontro sociale, cioè quello del lavoro salariato e delle classi subalterne».