L’8 maggio 1945 la Seconda Guerra Mondiale si concluse con la resa della Germania nazista alle forze alleate e all’armata rossa sovietica. Il 9 maggio di cinque anni dopo, il ministro degli esteri francese Robert Schuman formulò la famosa dichiarazione che ancora oggi viene considerata il fondamento dell’Europa comunitaria. La nuova Europa sarebbe nata dalle ceneri di un conflitto devastatore e avrebbe rappresentato la garanzia per una pace duratura. Ma come viene ricordata oggi la Seconda Guerra Mondiale? Si potrà mai parlare di una storia europea?

Guerre diverse sui libri di scuola

La seconda guerra mondiale è stata rappresentata in tutte le sue sfaccettature in innumerevoli libri, pellicole, documentari. Tuttavia, è soprattutto sui libri di scuola che la storia viene insegnata e tramandata. Essendo i libri di storia il frutto di politiche nazionali, la versione espressa tra le loro pagine è inevitabilmente una narrazione soggettiva e, spesso, selettiva. Fin dalla fine della guerra, i paesi coinvolti hanno dovuto fare i conti con un passato doloroso e mettere in atto politiche di memoria ad hoc, anche per facilitare la ricostruzione dell’identità nazionale e la legittimità dei nuovi stati o governi. Alcuni stati che collaborarono con la Germania nazista adottarono – per dirla con le parole dello storico Tony Judt – una “confortevole amnesia collettiva“, dando risalto all’eroica resistenza contro i tedeschi, lasciando questi ultimi come unici perpetratori delle atrocità.

Ancora oggi, tuttavia, il ricordo della guerra è tutt’altro che memoria comune. Persino la data di inizio del conflitto è soggetta a diverse interpretazioni: per la Repubblica Ceca il conflitto iniziò con il trattato di Monaco, per i paesi Baltici con il patto Ribbentrop-Motov, per i polacchi con l’invasione tedesca.

Questa varietà di interpretazioni è uno dei temi centrali del progetto Different wars, studio nato dalla collaborazione di storici provenienti da diversi paesi europei. Lo studio analizza i libri di storia usati nelle scuole secondarie di Polonia, Repubblica Ceca, Russia, Lituania, Germania e Italia, con una particolare attenzione alla rappresentazione del secondo conflitto mondiale e al modo in cui ogni nazione enfatizza o omette alcuni eventi.

Qualche mese fa, una controversa legge passata dal parlamento polacco ha destato scalpore, non tanto per il divieto della locuzione “campi di sterminio polacchi”, quanto per il tentativo di punire chiunque faccia riferimento al collaborazionismo o a crimini antisemiti perpetrati dai polacchi stessi. Il tentativo di lavare via una macchia dalla coscienza del popolo polacco è certamente un esempio di come gli eventi passati possano essere narrati in maniera altamente selettiva, ma – come dimostra lo studio – non è l’unico. Anche i libri scolastici in Lituania, ad esempio, appaiono esitanti nel riconoscere il collaborazionismo con l’invasore nazista, mentre non è così per i traditori che collaborarono con i sovietici. L’Italia, a sua volta, tende a dimenticare alcune campagne disastrose e l’ingente numero di vittime tra soldati italiani mandati allo sbaraglio. Secondo lo studio, ad esempio, non tutti i libri di testo italiani ricordano la campagna di Russia; similarmente, anche il destino degli italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo il 1943 non sembra essere un argomento approfondito.

Il conflitto, dunque, sembra essere un evento troppo complesso per un’unica interpretazione che possa soddisfare diverse parti.  Inoltre, una versione univoca è resa difficoltosa dalle conseguenze della guerra stessa: la prospettiva sugli eventi che andarono dal 1939 al 1945, infatti, cambia non solo in base al ruolo che un determinato paese ha assunto, bensì anche dal lato della cortina di ferro in cui si è ritrovato dopo la guerra.

L’eredità della guerra e le divisioni odierne

All’interno del dibattito su una storia e identità comune europea, le conseguenze della seconda guerra mondiale hanno assunto un ruolo particolarmente importante, soprattutto dopo l’allargamento iniziato nel 2004. Se si guarda alla seconda guerra mondiale come evento dalle cui macerie nacque l’Europa comunitaria, non si può evitare di considerare ciò che la fine della guerra ha comportato per i diversi paesi membri.

In Europa occidentale, molti paesi adottarono la sopracitata strategia dell’amnesia collettiva, mentre la Germania intraprendeva un percorso di espiazione delle proprie colpe, gettando così le basi per una coesistenza pacifica e per l’inizio delle negoziazioni per il grande progetto. Un’altra metà di Europa, invece, rimase dall’altra parte della cortina di ferro, passando dall’invasore nazista all’oppressore sovietico. La narrativa di questi paesi è fortemente influenzata da questo passaggio e questa doppia occupazione continua ad essere uno dei traumi più grandi per i Baltici e per i paesi dell’Europa centro orientale. Subito dopo la guerra, la narrativa imposta alle democrazie popolari fu quella sovietica, che esaltava il ruolo liberatore dell’armata rossa e discolpava i paesi orientali, presentandoli puramente come vittime della barbarie nazista. Seppur fortemente incoraggiati dal dominio sovietico, anche i regimi di questi paesi utilizzarono l’amnesia come metodo per cancellare alcune pagine nere.

Una narrativa alternativa a quella sovietica, tuttavia, continuava ad esistere. Nell’underground delle democrazie popolari in molti auspicavano “un ritorno all’Europa” e si sentivano vittime di abbandono da parte dell’occidente. Per dirla con Milan Kundera e il suo saggio The tragedy of Central Europe, questa parte dell’Europa si sentiva un occidente rapito dai comunisti e dai sovietici, ma che presto sarebbe tornato dove gli era consono, nella grande famiglia democratica europea.

Dopo il 1989, le narrative nazionali, fino ad allora rimaste non ufficiali, sono state “scongelate” e sono entrate a far parte del dibattito su una storia comune europea. Alcuni “buchi neri” del ventesimo secolo, eventi che erano stati taciuti dalla narrativa ufficiale, sono riemersi veementemente, spesso sotto forma di richieste di riconoscimento dei crimini subiti. Il patto Ribbentrop-Molotov e il massacro di Katyn sono esempi di questa tendenza, intensificatasi soprattutto dopo il 2004, anno dell’ingresso nell’Unione Europea.

Accusando un sentimento di estraneità e sentendosi “europei, ma non troppo”, gli allora nuovi membri hanno cercato attivamente di cambiare quella che ritenevano una versione occidentalocentrica della storia. I membri orientali sentivano il bisogno di informare i vicini occidentali sui crimini subiti sotto il comunismo, arrivando a paragonare i crimini staliniani con quelli hitleriani e chiedendo che fossero riconosciuti e commemorati. Tuttavia, mentre i crimini nazisti facevano parte di una memoria comune europea – rendendo l’Europa unita nell’aborrire quella barbarie – i vecchi stati membri non avevano conosciuto lo stalinismo. Non per tutta Europa, dunque, la fine della guerra aveva dato il via a un periodo positivo di pace e libertà. I paesi dell’ex Patto di Varsavia non avevano dimenticato i crimini perpetrati dai comunisti, taciuti per troppo tempo e dal 2004 alla ricerca di un posto nella memoria comune europea.

E’ difficile dire se, al giorno d’oggi, quest’obiettivo sia stato raggiunto. In termini pratici, nel 2009 i nuovi membri dell’UE hanno ottenuto l’istituzione di una Giornata europea in ricordo delle vittime di tutti i regimi totalitari, che ricorre il 23 agosto. Quest’ultima non è pubblicamente conosciuta quanto, ad esempio, il Giorno della memoria il 27 gennaio; il tempo dirà se riuscirà a diventare una data significativa per tutta Europa.

Intanto, è chiaro come il ricordo del comunismo in Europa continui a creare divisioni. L’intenzione di Juncker di recarsi a Treviri per il duecentesimo anniversario della nascita di Karl Marx non ha mancato di destare polemiche. Queste ultime si sono concentrate sulle vittime del comunismo e sulla mancanza di rispetto che il presidente della Commissione europea avrebbe avuto nei loro confronti, partecipando a un tale evento.

Quanto a una storia univoca europea, il raggiungimento della verità storica appare impossibile. Accettare la complessità della storia significa, probabilmente, l’impossibilità di scrivere una versione univoca per tutti. Quest’ultima, infatti, porterebbe inevitabilmente a un livellamento, a un processo di selezione che risulterebbe offensivo per alcune nazioni, dando via a vere e proprie olimpiadi della sofferenza, in cui i vari paesi si contendono il posto di vittima della storia. Accettare la complessità non vuole dire, tuttavia, accettare revisionismi o relativismi di sorta, bensì mantenere il delicato equilibrio dell’accordo sul disaccordo, tenendo sempre in mente quanto la storia che impariamo sia molto spesso il frutto di narrazioni.

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