Spread e Governo, ma anche sinistra e euro sono le tematiche affrontate nell’intervista a Domenico Moro, autore di La gabbia dell’Euro, perché uscirne è internazionalista e di sinistra. 

I grandi gruppi editoriali e la grande stampa diffondono notizie terrificanti sulla situazione politica “da parte dei mercati”. La situazione attuale di stallo “fa aumentare lo spread” e i “mercati fremono”, cosa significa realmente?
«Lo spread è la differenza tra i tassi d’interesse che l’Italia e la Germania pagano a chi acquista i loro titoli di stato. Recentemente c’è stato un aumento di questo differenziale a favore della Germania, che è stato collegato alla possibile formazione di un governo Lega-M5S. A questo proposito bisogna fare alcune precisazioni. In primo luogo, lo spread arrivò a picchi più alti un anno fa (7 giugno 2017, 202 punti contro 176 punti del 22 maggio), all’epoca del governo Gentiloni, e durante il governo Monti (7 ottobre 2013 248 punti), che pure erano governi europeisti. In secondo luogo, lo spread è salito rapidamente in queste settimane anche in altri Paesi, come la Finlandia. In terzo luogo, l’andamento dello spread dipende da molte variabili, che influenzano le decisioni dei fondi d’investimento. Tra queste non bisogna dimenticare il fatto che la Bce a settembre interromperà il programma di acquisto di titoli di stato».


Nella giornata di ieri il «Quotidiano Nazionale» ha pubblicato un’infografica che mostrava “l’altalena” dello spread dal 2008 (sotto il Governo Prodi), passando per Berlusconi (oltre i 500 punti base) e la conseguente discesa con i Governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni. È la reazione del capitale alla reazione politica?
«Non mi pare che i grafici denotino un rapporto diretto di causa-effetto tra tipo di governo e andamento dello spread. Al limite è una delle variabili. Sul calo dello spread tra 2012 e oggi hanno inciso prima il taglio dei tassi da parte della Bce e la dichiarazione di Draghi del 2012 che sarebbe intervenuto sul debito pubblico, e successivamente nel 2015 l’avvio del programma della Bce di acquisto di titoli di stato».

Secondo te i mercati hanno realmente da temere con un governo 5 Stelle/Lega, oppure è speculazione?
«Ci sono due questioni da tenere presenti. La prima è inerente a come e per la difesa di quali interessi il M5S e soprattutto la Lega intendono “rinegoziare” i trattati e il rapporto dell’Italia con l’Europa. A me pare che la flat tax, imposta regressiva e anticostituzionale, sia un segnale di come l’approccio sia favorevole alle imprese a ai più ricchi. La seconda questione è se il programma di Lega e M5S sia attuabile nel contesto dell’Uem. Non credo lo sia. Esiste una vera e propria gabbia di vincoli e meccanismi economico-valutari che lo impediscono. Tagliare le tasse ai ricchi, decurtando drasticamente le entrate fiscali, e allo stesso tempo aumentare la spesa per il reddito di cittadinanza sono proposte in contraddizione tra di loro. Soprattutto sono impossibili ad attuarsi non solo perché ci sono dei vincoli al deficit e al debito, ma anche perché l’Italia, non avendo sovranità monetaria, non può monetizzare il debito, cioè non può finanziare la spesa facendo “stampare” denaro da parte della Banca d’Italia. In conclusione, l’unica prospettiva realistica è uscire dall’euro, cioè rientrare in possesso degli strumenti di politica monetaria e economica. Ma non per tagliare le tasse ai ricchi o limitarsi a un reddito di sostegno, pur necessario, a chi non ha un lavoro. Molte volte si è fatto l’errore di pensare che bastasse abbassare le tasse ai ricchi e alle imprese per far ripartire economia e occupazione. Così facendo si sono aumentati solo i profitti. Vanno, invece, fatti investimenti pubblici, in una arco di dieci anni, di entità tale da creare i milioni di posti di lavoro mancanti, realizzare le infrastrutture necessarie al nostro Paese e aumentare il Pil, diminuendo così il rapporto debito/Pil. Tutto questo comporta l’allargamento dell’intervento pubblico, il che include le ripubblicizzazioni di imprese e banche di interesse strategico. Va definito, quindi, un percorso di uscita dall’euro non da destra ma da sinistra, intendendo il termine sinistra nel suo significato originario, cioè dalla parte dei lavoratori salariati e delle classi subalterne».

Spostandoci a sinistra ma mantenendo la tematica “europea” come questione primaria: alla luce di quanto hai scritto nel tuo ultimo saggio (La gabbia dell’Euro, 2018, Imprimatur), cosa ti aspetti dall’assemblea di Pap il 26 e il 27 maggio sui temi dell’uscita dall’Ue e riguardo l’Euro?
«La tematica della critica all’euro è una tematica di sinistra. Nel 1992, mentre la Lega votò la ratifica del trattato di Maastricht, il Partito della Rifondazione Comunista (Prc) fu tra i pochissimi a votare contro. Lucio Magri, che intervenne in Parlamento per il Prc, parlò espressamente di pericoli insiti nella cessione della sovranità monetaria. Toni e parole che oggi qualcuno scambierebbe per “sovranisti”. Purtroppo, successivamente la sinistra radicale ha fatto l’errore di pensare che il terreno europeo potesse essere il terreno dell’internazionalismo e che parlare di uscita dalla Ue, e persino dalla Uem, fosse nazionalista. Invece, gli ultimi anni hanno dimostrato che è l’euro a creare nazionalismo e a dividere il movimento dei lavoratori europei, privandoli degli strumenti minimi dell’esercizio della sovranità democratica. Lasciare la questione dell’uscita dall’euro alla destra leghista è stato un grave errore. In questo modo la destra è riuscita a raccogliere consenso tra i lavoratori e a costruire egemonia. Spero, quindi, che in Pap la questione dell’uscita dall’euro, condizione necessaria anche se non sufficiente a ristabilire dei rapporti di forza favorevoli ai lavoratori, sia collocata in un programma politico che si concentri sulla creazione di veri posti di lavoro, sullo sviluppo del Mezzogiorno e del welfare e sulla critica alla Nato. Tutti aspetti che non possono essere affrontati senza chiarirsi sull’Europa e sull’euro».