La situazione politico-sociale del Myanmar e della crisi Rohingya rimane molto delicata e lontana da una risoluzione definitiva. La domanda più ricorrente che la comunità internazionale si sta ponendo da parecchi mesi, è: com’è possibile che Aung San Suu Kyi, icona della lotta non-violenta e premio Nobel per la Pace nel 1991, abbia permesso e continui a non ammettere le atrocità e le continue violazioni dei Diritti Umani compiute dall’esercito birmano ai danni della minoranza Rohingya?

Per rispondere a questo grande interrogativo, è utile dare uno sguardo all’attuale situazione politica del paese, e al processo storico che l’ha delineata. Attualmente, il primo partito in Myanmar è la “Lega Nazionale per la Democrazia”, guidato proprio dalla Suu Kyi. La LND ha dominato la scena politica recente, stravincendo le ultime elezioni tenutesi nel 2015 (le prime considerate realmente democratiche dal 1990) e sancendo almeno sulla carta la fine di un periodo di dittatura militare in vigore dal 1962. Tuttavia, a causa di un emendamento costituzionale istituito dal precedente governo, non può governare il paese chi ha figli nati all’estero. Questa modifica alla costituzione era stata apportata con il chiaro intento di evitare che Aung San Suu Kyi, simbolo della democrazia durante la dittatura, fosse un giorno eletta presidente. Per questo motivo, il presidente birmano è ora Htin Kyaw, mentre la Suu Kyi ricopre il ruolo di Consigliere di Stato, i cui compiti sono di fatto speculari a quelli di un vero e proprio Primo Ministro.
Nonostante per il Myanmar sembrava aprirsi la strada verso la tanto agognata democrazia, si ha ancora la sensazione che sia in realtà l’esercito a controllare direttamente il Consigliere di stato e quindi a governare il paese. Il Comandante Capo della Difesa, nonché capo dell’esercito, è Min Aung Hlan, che per legge, indipendentemente dall’esito delle elezioni, può scegliere il 25% dei membri del Parlamento (110 su 440) e nominare il Ministri di: Difesa, Sviluppo Economico, Affari Interni ed Affari Esteri.

E’ interessante notare, come prima della “svolta democratica” lo stato fosse vittima di pesanti sanzioni economiche attuate da gran parte delle nazioni e delle organizzazioni politiche mondiali, oltre che essere sottoposto ad un grande embargo commerciale. Come già detto in precedenza, si trattava di una dittatura, e l’esercito non aveva mai esitato nel soffocare qualsiasi tipo di rivolta nel sangue (l’esempio più chiaro è quello della rivoluzione dell’”8888”). E’ stato solo dopo la scarcerazione della Suu Kyi che la comunità mondiale ha diminuito drasticamente le sanzioni e si è nuovamente aperta al dialogo con il paese, non a caso negli ultimi anni abbiamo assistito ad una forte crescita economica in tutte le regioni. Inoltre, è utile notare come l’avvicendamento al governo non è mai realmente coinciso con un radicale ricambio nè della classe dirigente, né tantomeno di quella dell’esercito: basti pensare che Aung Hlan ha sempre ricoperto cariche militari anche durante la dittatura.

Detto ciò, non è impossibile ipotizzare che il Myanmar sia diventata l’incarnazione di un’altra cosiddetta “democrazia di facciata”: nonostante le dichiarazioni di apertura economica e sociale, lo stato continua infatti a non accettare la giurisdizione della Corte di Giustizia Internazionale, maggiore organo giuridico dell’ONU. A ciò bisogna aggiungere il fatto che il governo, specialmente negli ultimi mesi, ha sempre negato alla commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite di fare indagini nel Rakhine, per fare chiarezza sul genocidio dei Rohingya, a riprova del fatto che questa apertura alla democrazia sia avvenuta solamente a parole.

Capitolo mezzi di informazione: essi sono tutti sotto il controllo statale, in grado quindi di scongiurare sul nascere qualsiasi tentativo di mettere in cattiva luce il suo operato: l’esempio più chiaro di tutto questo risponde ai nomi di U Wa Lone e U Kyaw Soe Oo, giornalisti indipendenti recentemente arrestati mentre svolgevano indagini nella regione del Rakhine.

Le ipotesi sopra elencate implicano il fatto che Aung San Suu Kyi abbia venduto la sua immagine in cambio della libertà, consegnandosi di fatto in mano all’esercito. In questo caso, la questione diventerebbe anche e soprattutto ideologica: la Suu Kyi avrebbe anche infatti voltato le spalle a tutti gli ideali che aveva strenuamente difeso dopo l’assassinio di suo padre, per i quali aveva anche scontato più di 20 anni di arresti domiciliari. Questa, sebbene sia una prospettiva molto difficile da accettare, sembra essere sempre più evidente alla luce di quanto sta accadendo nel paese.

E’ quindi fondamentale andare al di là di quelle che sono le apparenze: solo perché il Myanmar si definisce “democratico” non è detto che sia il caso di trattarlo come tale a priori. Il nuovo orientamento del paese non gli ha impedito di perseguitare i Rohingya, sterminarli e spingerli all’esodo forzato compiendo verso di loro ogni genere di violenza. E di fronte a fatti come questo, l’orientamento politico non può che passare in secondo piano.