Sfruttamento, abusi e talvolta autentica schiavitù sono ancora una realtà di ogni giorno per decine di migliaia di lavoratori della pesca e della filiera ittica nel mondo. Ma finalmente si intravedono alcuni spiragli di cambiamento, perfino nei contesti più difficili.

La Thailandia, oltre a essere il terzo esportatore mondiale di prodotti ittici (un giro d’affari di 6,6 miliardi di dollari nel 2014), è anche uno dei Paesi dove il caporalato del mare imperversa con maggior forza e brutalità. Il settore impiega più di 600mila persone tra equipaggi delle navi e operai nelle fabbriche di trasformazione del pescato. Tra questi, ben 302mila sono immigrati provenienti perlopiù da Birmania e Cambogia: sono loro i più esposti ai traffici di esseri umani, venduti per poche centinaia di dollari ognuno ai capitani dei pescherecci o ai padroni degli impianti industriali.

Nel 2015 l’Unione Europea ha minacciato di bloccare le importazioni ittiche dalla Thailandia se la pesca e il suo indotto non fossero stati “ripuliti”. In seguito al crescente sdegno internazionale, in conseguenza della presa di posizione europea e di un’inchiesta di Associated Press premiata con il Pulitzer, la giunta militare al potere ha avviato nel 2016 una profonda riforma che tuttavia, nell’immediato, pareva non aver sortito grandi effetti.

A due anni di distanza, uno studio sul campo condotto dall’Ilo (l’agenzia delle Nazioni Unite per il lavoro) restituisce un quadro fatto di luci e ombre. Le interviste condotte tra marzo e aprile 2017 su un campione di 434 lavoratori (125 cambogiani, 287 birmani e 22 thailandesi) per il report “Ship to Shore Rights” hanno mostrato «importanti cambiamenti nell’industria e prove sia di progressi che di persistenti abusi». Se nel 2013 appena il 6% degli addetti aveva un contratto scritto, oggi la percentuale è salita al 43%. Un altro passo avanti, segnala l’Ilo, è nella tipologia di abusi denunciati: sebbene il 12% dei lavoratori riporti di aver subito abusi verbali – e il 7% minacce di violenza – le violenze fisiche sono un problema solo per il 2% del campione.

Questo non significa comunque che gli “schiavi dei gamberetti” siano una realtà del passato. Un terzo dei lavoratori afferma di essere pagato meno del salario minimo legale, mentre il 53% di loro denuncia trattenute illecite sullo stipendio mensile e il 24% racconta di ritardi prolungati nella consegna delle paghe. Le frodi nel reclutamento e nella contrattazione, le trattenute sui salari e la diffusa pratica di sequestrare i documenti di identità (un terzo dei pescatori ne sono vittime) costituiscono altrettante prove dell’esistenza di pratiche riconducibili al lavoro forzato.

Il quadro è più positivo a terra, dove il sequestro dei documenti interessa il 7% degli addetti alla lavorazione dei prodotti ittici e nessuno ha denunciato trattenute sui compensi. Nel complesso, soltanto il 29% dei pescatori e il 56% degli operai non ha sperimentato nessuna delle condizioni definibili come lavoro forzato. Un dato in miglioramento ma ancora drammaticamente basso, specie se consideriamo che il campione di interviste – condotte in un periodo di tempo limitato – non includeva i pescatori impiegati sulle imbarcazioni a lungo raggio, dove le probabilità di abusi sono maggiori.

C’è infine un ultimo punto da tenere in considerazione: l’Issara Institute, un’organizzazione locale attiva contro la tratta della pesca, segnala che spesso i lavoratori sono ignari perfino del fatto che le tristi condizioni della vita in mare costituisca una forma di sfruttamento.

Andrea Cascioli da Slowfood.it

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