La guerra in Iraq è stata una guerra di propaganda in cui frasi enfatiche tipo “armi di distruzione di massa” e “stato canaglia” sono state lanciate come armi di precisione sulla popolazione bersaglio: noi.
Blair ha pagato un prezzo per la sua grandiosa montatura. Invece Bush ha veleggiato tranquillo attraverso la tempesta. Perché?

Di Jeffrey St. Clair. Ripresa da Counterpunch, 20/03/2018

 

La guerra in Iraq non sarà tanto ricordata per come è stata condotta quanto per come è stata venduta. Fu una guerra di propaganda, una guerra di comunicazione in cui frasi enfatiche tipo “armi di distruzione di massa” e “stato canaglia” sono state lanciate come armi di precisione sulla popolazione bersaglio: noi.
Per comprendere la guerra in Iraq non è necessario consultare i generali, ma i maghi della comunicazione e gli agenti delle pubbliche relazioni che hanno gestito il conto alla rovescia per la guerra dai torbidi corridoi di Washington, dove convivono la politica, la dirigenza delle multinazionali e le spie della guerra psicologica.

Guardate il percorso picaresco del dossier di Tony Blair sull’Iraq, dal sito web di uno studente universitario a una stesura “copia e incolla” fino al burrascoso discorso del primo ministro alla Camera dei Comuni. Blair, testardo e prolisso, pagò un prezzo per la sua grandiosa montatura. Bush, che ha saccheggiato interi passaggi dal discorso di Blair per le sue goffe presentazioni, ha veleggiato tranquillo attraverso la tempesta. Perché?
A differenza di Blair, la squadra di Bush non ha mai voluto presentare un motivo legale per la guerra. Non avevano alcun interesse a vendere come prova nessuna delle loro accuse sull’Iraq. Il loro sforzo mirava ad amplificare l’umore a favore della guerra usando la psicologia della paura.

I fatti non erano mai importanti per la squadra di Bush. Erano battute usa e getta che potevano essere scartate a piacimento e rimpiazzate da qualunque nuova logica che potesse andare d’accordo con i loro sondaggi e focus group. Una settimana la guerra si doveva fare per le armi di distruzione di massa, il giorno dopo per al-Qaeda. Quando nessuna delle accuse potè essere provata sul terreno, si ripiegò sulle fosse comuni (molte risalenti alla guerra Iran/Iraq in cui gli USA avevano sostenuto l’Iraq) per dimostrare che Saddam era un malvivente criminale che meritava di essere rovesciato. Il motto della macchina della propaganda di Bush era: muoviti. Non dare spiegazioni. Dì qualsiasi cosa per nascondere la perfidia che sta dietro i veri motivi della guerra. Non voltarti mai indietro. Se qualcuno fa domande accusalo di celare sentimenti anti-patriottici. Alla fine, persino il furbo Wolfowitz ammise che la spinta ufficiale per la guerra consisteva soprattutto nel rendere appetibile l’invasione, non per giustificarla.

La claque dei falchi neocon di Bush vedeva la guerra in Iraq come un prodotto e, proprio come un nuovo paio di Nike, richiedeva una campagna di lancio per ammorbidire i consumatori. Le stesse tecniche (e spesso gli stessi guru delle pubbliche relazioni) che erano stati usati per piazzare sigarette, SUV e discariche di rifiuti nucleari sono state utilizzate per vendere al dettaglio la guerra in Iraq. Per spacciare l’invasione, Donald Rumsfeld, Colin Powell e compari hanno reclutato guru di pubbliche relazioni in posti di alto livello al Pentagono e al Dipartimento di Stato. Questi esperti presto ebbero più voce in capitolo su come si dovevano presentare le motivazioni per la guerra in Iraq che non le agenzie di intelligence e i diplomatici di carriera. Se la ragione non si adattava al copione, era messa in ombra, riorganizzata o eliminata.

Secondo la rivista commerciale PR Week, il gruppo di Rumsfeld ha inviato “consigli di messaggistica” al Pentagono. Il gruppo ha detto a Clarke e Rumsfeld che, per convincere il pubblico americano a far guerra al terrorismo, avevano bisogno di suggerire un collegamento con gli stati nazionali, non solo con gruppi nebulosi come al-Qaeda. In altre parole, doveva esserci un obiettivo fisso per le campagne militari, un posto lontano dove lanciare missili cruise e bombe a grappolo. Hanno suggerito la nozione (già assimilata nella mente di Rumsfeld) di esaltare il ruolo dei cosiddetti stati canaglia come i veri padroni del terrorismo. Così è nato l’Asse del Male, che, invece, non era affatto un “asse” dal momento che due stati, l’Iran e l’Iraq, si odiavano a vicenda, e nessuno dei due aveva nulla a che fare con il terzo, la Corea del Nord.

Decine di milioni di dollari del contribuente sono stati versati a società private di pubbliche relazioni e agenzie di stampa che lavorarono per fabbricare e diffondere il diktat di Bush secondo cui il dittatore Saddam doveva essere eliminato prima che facesse esplodere il mondo lanciando bombe chimiche e nucleari da droni a lungo raggio. Molti di questi dirigenti e consulenti d’immagine erano vecchi amici dei sommi sacerdoti nel sancta sanctorum di Bush. In effetti, erano veterani, come Cheney e Powell, della precedente guerra contro l’Iraq, un altro esempio più di propaganda che di combattimento.

A livello diplomatico, nonostante le armi a noleggio e le storie piazzate, questa guerra di immagine fu persa. Non riuscì a convincere neppure gli stati più fervidi alleati e clienti dipendenti degli USA che l’Iraq rappresentasse una grande minaccia. Non riuscì ad ottenere la benedizione dell’ONU e neppure della NATO, la consociata interamente controllata da Washington. Alla fine della fiera, la tanto decantata coalizione dei volenterosi consisteva in Gran Bretagna, Spagna, Italia, Australia e una coorte di ex nazioni del blocco sovietico. E anche così, i cittadini delle nazioni che si erano unite agli USA si opposero alla guerra in modo schiacciante.

A livello nazionale fu una storia diversa. Una popolazione traumatizzata dalle minacce terroristiche e dall’economia in frantumi divenne facile preda del bombardamento a tappeto coi messaggi di Bush secondo cui l’Iraq era uno stato terrorista legato ad al-Qaeda ed era a pochi minuti dal lanciare attacchi contro gli USA con armi di distruzione di massa.
Gli statunitensi sono stati vittime di una truffa elaborata, perseguita con una raffica quotidiana di esagerazioni, distorsioni, inganni e menzogne su presunte minacce, non su tattiche o strategie o piani di guerra, ma sulle giustificazioni per la guerra. Le bugie erano mirate a confondere non il regime di Saddam, ma il popolo statunitense. All’inizio della guerra, il 66% degli statunitensi pensava che Saddam Hussein fosse il regista dell’11 settembre e il 79% pensava che fosse prossimo ad avere un’arma nucleare.

Naturalmente, la cosa più vicina a un ordigno nucleare che Saddam abbia mai avuto era una centrifuga a gas arrugginita, sepolta per 13 anni nel giardino di Mahdi Obeidi, uno scienziato iracheno in pensione. L’Iraq non aveva armi chimiche o biologiche funzionanti. In realtà, non possedeva nemmeno missili SCUD, nonostante i rapporti errati, alimentati dagli agenti di pubbliche relazioni alleati del Pentagono, che sostenevano avesse lanciato SCUD contro il Kuwait.
Questa sciarada non avrebbe funzionato senza dei media creduloni o complici. Victoria Clarke, che sviluppò il piano del Pentagono per i rapporti preconfezionati, lo sintetizzò poche settimane prima che iniziasse la guerra: “La copertura mediatica di qualsiasi operazione futura influenzerà in larga misura la percezione del pubblico”.

“Molte delle nostre immagini avranno un grande impatto sull’opinione pubblica mondiale”, affermò il tenente Jane Larogue, regista di Combat Camera in Iraq. La signora aveva ragione. Ma mentre la guerra calda si trasformava in un’occupazione ancora più calda, il Pentagono, nonostante l’ariosa retorica del capo dell’occupazione Paul Bremer sulla messa in opera di istituzioni democratiche come una stampa libera, si mise a stringere la censura sulle immagini in uscita dall’Iraq. In primo luogo, cercò di chiudere Al Jazeera, il canale arabo di notizie. Poi minacciò di bandire da Baghdad tutte le troupe televisive straniere.

Pochi giornali diffusero l’isteria per la minaccia posta dalle armi di distruzione di massa di Saddam con la stessa seduzione del Washington Post. Nei mesi che precedettero la guerra, gli editorialisti pro-guerra del Post superavano le colonne contro la guerra con un margine di 3 a 1.

Nel 1988, il Post giudicava molto diversamente Saddam e le sue armi di distruzione di massa. Quando si diffusero rapporti sull’impiego di gas contro le truppe iraniane, l’editoriale del Washington Post si scrollò di dosso i massacri, definendo gli avvelenamenti di massa “un capriccio della guerra”.

La squadra di Bush mostrò un’amnesia simile. Quando l’Iraq usò armi chimiche in terribili attacchi contro l’Iran, il governo degli USA non solo non obiettò, anzi incoraggiò Saddam. Qualunque cosa punisca l’Iran è ok: questo il messaggio che veniva dalla Casa Bianca. Donald Rumsfeld in persona fu mandato a Baghdad come inviato personale del presidente Ronald Reagan. Rumsfeld espresse il messaggio baldanzoso secondo cui una sconfitta dell’Iraq sarebbe stata vista come una “battuta d’arresto strategica per gli USA”. Quella squallida alleanza fu suggellata con una stretta di mano immortalata in videocassetta. Quando la reporter della CNN Jamie McIntyre riprese il filmato per Rumsfeld nella primavera del 2003, il segretario della difesa scattò: “Dove l’hai preso? Televisione irachena?”.

Anche l’attuale schiera di falchi contro l’Iraq aveva visto Saddam molto diversamente allora. Si prenda la scrittrice Laura Mylroie, allora collega di Judy Miller del New York Times, che insiste nello spacciare la ridicola tesi secondo cui dietro l’attentato del 1993 al World Trade Center ci sarebbe stato l’Iraq.

Come sono cambiati i tempi! Nel 1987, la Mylroie si sentiva decisamente coccola nei confronti di Saddam. Scrisse un articolo per il New Republic intitolato “Sostieni Iraq: è tempo per una svolta degli USA in Medioriente”, sostenendo che gli USA dovevano abbracciare pubblicamente il regime laico di Saddam come baluardo contro i fondamentalisti islamici in Iran. Il coautore di quel fascinoso intreccio di secchioneria era nientemeno che Daniel Pipes, forse il più bellicoso islamofobo in tutti gli USA. “Le armi americane di cui l’Iraq potrebbe fare buon uso includono mine antiuomo a dispersione e radar per l’artiglieria contraerea”, scrissero Mylroie e Pipes. “Gli USA potrebbero anche prendere in considerazione l’aggiornamento dello spionaggio che fornisce a Baghdad”.

Nei preparativi per la guerra, la Mylroie sembrava essere ovunque a incitare per l’invasione dell’Iraq. Appariva spesso su due o tre reti diverse nello stesso giorno. Come ha fatto la giornalista a gestito una simile impresa? Fu aiutata da Eleana Benador, il guru dei piazzamenti nei media che gestisce la Benador Associates. Nata in Perù, la Benador ha trasformato le sue abilità linguistiche in una redditizia carriera come matrona delle relazioni con i media per l’élite della politica estera di Washington. Sovrintende anche il Middle East Forum, una fabbrica di carta bianca fanaticamente pro-sionista. Tra i suoi clienti figurano alcuni dei più fervidi falchi della nazione, tra cui Michael Ledeen, Charles Krauthammer, Al Haig, Max Boot, Daniel Pipes, Richard Perle e Judy Miller. Durante la guerra in Iraq, la Benador aveva il compito di intruppare questo squadrone di fanatici pro-guerra nei media nazionali, nei talk show e negli editoriali.

La Benador non solo li mise in scena, ma scrisse anche il copione e si assicurò che tutti vi si attenessero. “Ci sono alcune cose, devi solo dichiararle in un modo diverso, in un modo leggermente diverso”, disse la Benador. “Altrimenti, la gente si spaventa”. Si spaventa per le intenzioni del suo governo.

Poteva andare diversamente. Tutti i buchi nella maldestra ragnatela dell’amministrazione Bush erano proprio lì per la stampa mainstream, pronti da esporre. Invece la stampa statunitense, proprio come le compagnie petrolifere, cercò di commercializzare la guerra in Iraq e di trarre profitto dalle invasioni. Non volevano affrontare fatti scomodi o voci di dissenso.

Nulla riassume questo approccio untuoso con più sfacciataggine della MSNBC, che cancellò il talk show liberale di Phil Donahue alla vigilia della guerra. La rete sostituì il Donahue Show con una trasmissione volante chiamata “Conto alla rovescia: Iraq”, con la solita consorteria notturna di generali in pensione, agenti di sicurezza, e altri corifei pro-invasione. I dirigenti della rete attribuirono la cancellazione a insoddisfacenti indici di ascolto. In realtà, finché era andato in onda, lo show di Donahue aveva attratto più spettatori di qualsiasi altro programma su quella rete. La vera ragione dell’attacco preventivo a Donahue è spiegata in un promemoria interno di ansiosi dirigenti della NBC. Donahue, dice il memorandum, ha offerto “un volto difficile per la NBC in tempo di guerra. Sembra deliziarsi nel presentare ospiti anti-guerra, anti-Bush e scettici sulle motivazioni dell’amministrazione”.

Il memo avvertiva che il Donahue show rischiava di connotare la MSNBC come una rete non patriottica, “una casa per l’agenda liberale contro la guerra nello stesso momento in cui i nostri concorrenti stanno sventolando la bandiera in ogni occasione”. Quindi, senza pensarci su due volte, i capocce di MSNBC hanna dato una pedata sul sedere a Donahue e hanno issato la bandiera di battaglia.

È la guerra che vende.

C’è un diavolo di avvertimento, ovviamente. Una volta acquistato, i mercanti di guerra non accettano ritorni.

 

Traduzione dall’inglese di Leopoldo Salmaso