Il 17 febbraio 2018 ricorreva il decennale della dichiarazione di indipendenza unilaterale, una secessione di fatto, del Kosovo dalla Serbia, della quale costituiva provincia autonoma e dalla quale era già di fatto separato dopo la guerra del 1999. Sebbene il conflitto serbo-albanese, dopo l’aggressione della NATO (24 marzo – 10 giugno 1999), si fosse concluso con gli accordi tecnico-militari di Kumanovo e l’approvazione, da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, della Risoluzione 1244, adottata il 10 giugno 1999, l’installazione di una missione internazionale delle Nazioni Unite per l’amministrazione ad interim della regione, la missione UNMIK, supportata dal dispositivo di sicurezza imposto dalla NATO, la missione KFOR, ha avuto, tra le altre conseguenze, quella di “allontanare” sempre di più Prishtina da Belgrado e consolidare l’auto-governo, in sostanza «mono-etnico», kosovaro albanese, della regione.

È appena il caso di richiamare che la Risoluzione 1244 afferma tre contenuti principali: invoca una soluzione politica della crisi kosovara in base ai principi sanciti dalla Dichiarazione di Petersberg del G8 del 6 maggio 1999, tra i quali, in particolare, una presenza internazionale, civile e militare, su mandato delle Nazioni Unite, una amministrazione ad interim delle Nazioni Unite, e l’avvio di un «sostanziale auto-governo nel pieno rispetto degli accordi di Rambouillet, dei principi di sovranità e integrità territoriale della Repubblica Federale di Jugoslavia e degli altri Paesi della regione, e la smilitarizzazione dell’UCK». Inoltre, sollecita al dovere dell’aiuto umanitario a sostegno dei kosovari e richiama l’UE e le organizzazioni internazionali a sviluppare un «approccio complessivo per lo sviluppo e per la stabilizzazione».

Riconosciuto, a dieci anni di distanza dalla proclamazione di indipendenza, da 114 stati membri (dunque ancora meno dei due terzi) delle Nazioni Unite, il Kosovo è uno Stato di fatto, riconosciuto dal concerto delle potenze occidentali (non da tutti i Paesi dell’Unione Europea: Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro non riconoscono il Kosovo), ma non riconosciuto da Brasile, Cina, India, Russia, Sudafrica (così come da Paesi come l’Algeria e Cuba, Israele e l’Iran, il Marocco e il Venezuela). Uno Stato di fatto, peraltro, ancora lontano dal «volano dello sviluppo», se è vero, come attestano i dati UNDP, che la speranza di vita è ferma a 71 anni, quasi il 30% vive sotto la soglia di povertà, il tasso di disoccupazione è intorno al 33% e la disoccupazione giovanile sfiora il 58% dei giovani (tra 15 e 24 anni) kosovari.

Una fotografia significativa della situazione e della percezione del post-conflitto kosovaro, a dieci anni dalla secessione, è offerta da un recente studio, dal titolo evocativo, «Beyond the Bridge: symbolism, freedom of movement and safety», in italiano, «Oltre il Ponte: simbolismo, libertà di movimento, sicurezza», che, sin dall’incipit, ha il merito di focalizzare l’attenzione su alcune delle priorità e delle carenze più avvertite dall’opinione pubblica kosovara, vale a dire le limitazioni alla libertà di movimento, le difficoltà nella disponibilità di servizi pubblici efficienti, la perdurante situazione di incertezza e di insicurezza, anche legata a corruzione e criminalità, che si continua a vivere nella regione.

Redatto dall’Alternative Dispute Resolution CenterMediation Center Mitrovica, sulla base di 800 questionari distribuiti tra le due parti di Mitrovica, a cavallo del ponte, 400 a Mitrovica Nord (Kosovska Mitrovica), a maggioranza serba, 400 a Mitrovica Sud (Mitrovicë), a maggioranza albanese, lo studio ha coinvolto le diverse comunità etniche presenti, Serbi (49.2%), Albanesi (40.7%), Bosniacchi (5.3%), Turchi (1.7%), Gorani (1.6%), Rom (0.7%), Ashkali (0.1%), Egyptian (0.4%), rilevando sentimenti e percezioni, peraltro, già in buona parte noti agli osservatori e agli analisti. Il ponte centrale di Mitrovica, assurto, paradossalmente, a simbolo della divisione etnica che perdura nel Kosovo post-conflitto, continua a suscitare reazioni o associazioni negative per il 36.7% degli intervistati (ma, significativamente, dichiara «neutro» il proprio sentimento il 43.5% degli intervistati): in particolare, per ogni serbo la cui associazione con il ponte è positiva, ve ne sono tre la cui reazione è negativa, mentre tra gli albanesi tale rapporto scende ad uno ogni (poco meno di) due.

Il che non vuol dire che scambi e contatti non si verifichino: il 22% dichiara di attraversare regolarmente il ponte principale, sebbene siano soprattutto i non-Serbi e i non-Albanesi ad attraversarlo, con punte tra i Gorani (50%) e i Turchi (46%). Sebbene il 35% ritenga che il ponte principale debba essere aperto al traffico sia pedonale sia veicolare, il 37% ritiene che debba essere chiuso del tutto, o, al massimo, aperto solo ai pedoni; ed è molto significativo che a ritenere che il ponte debba essere aperto a tutti, sia ai pedoni sia ai veicoli, sia appena il 14.6% dei Serbi e ben il 61.8% degli Albanesi. E peraltro, l’apertura del ponte non è considerata tanto importante ai fini della «riconciliazione» (12%) quanto, piuttosto, ai fini dello sviluppo economico e, soprattutto, della libertà di movimento delle persone (40%).

Laddove il 46.4% dei kosovari albanesi ritiene che l’apertura del ponte possa avere un effetto positivo sulla situazione di sicurezza, ben il 42.1% dei Serbi del Kosovo ritiene che lo stesso effetto non possa che essere negativo. Ancora tra i Serbi del Kosovo, lo studio mette inoltre in evidenza come quasi il 70% ritenga che nessun accordo, tra quelli mediati dalla UE, abbia effettivamente contribuito a migliorare la libertà di movimento in Kosovo, e più del 55% ritiene che nessun accordo abbia efficacemente contribuito alla sicurezza. Il Kosovo rimane dunque una regione, a dieci anni dalla proclamata indipendenza, ancora problematica e insicura, dove, soprattutto per le minoranze, sentimenti di timore o di ostilità, di sfiducia e di diffidenza nei confronti delle autorità locali e internazionali, continuano a farla da padroni. Sembra potersi ricavare un messaggio, non del tutto inedito, dieci anni dopo: non quello della «riconciliazione per la riconciliazione»; bensì quello di bisogni da soddisfare e diritti da proteggere, per tutti e tutte, in questa regione.