… e non è il simpatico topolino del dolcissimo film Ratatouille, purtroppo!

Ma andiamo per ordine: di libri sul cibo, l’ecosistema e le abitudini riposte sui ripiani dei nostri frigoriferi (molte delle quali purtroppo pesantemente nocive per il Pianeta, oltre che per la nostra salute) se ne trovano tanti. Basta farsi un giro in libreria per trovare un ricco assortimento di pubblicazioni, e non intendo ovviamente i ricettari regionali né i compendi più vari dello scibile in termini di scienza culinaria. Mi riferisco a un’attenzione sempre crescente, da parte di autori, giornalisti, scrittori – e per fortuna anche lettori – ai temi connessi all’alimentazione, non solo per quanto riguarda salute e consuetudini equilibrate da mettere in tavola, ma anche verso l’industria alimentare e i suoi ingranaggi che, più spesso del previsto, si inceppano su qualità e trasparenza.

Significativo è quando è proprio un manager dell’industria alimentare ad accendere i riflettori sui crimini – perché così vanno chiamati, smettiamola di edulcorare – che rimangono nascosti tra gli scaffali dei grandi magazzini. Autore del libro Siete pazzi a mangiarlo è Christophe Busset, per anni silenzioso e complice testimone di operazioni deplorevoli come la produzione e la vendita di cibo scaduto, avariato, perfino tossico. Il tutto in funzione di un aumento di profitto che giova soltanto alle grandi multinazionali, non certo all’ignaro consumatore destinatario finale di quel prodotto.

Busset è quello che potremmo definire un “pentito”, che ha scelto di fare un passo coraggioso di denuncia, scoprendo il velo di omertà e interessi economici steso sopra la produzione alimentare: cibi adulterati, tagliati come droga con materie a volte nemmeno commestibili o perfino tossiche (come ci raccontano gli amici di Italia che cambia) di origini non solo incerte ma persino false. Operazioni che spesso beneficiano di controlli inesistenti e di standard qualitativi ridicoli che permettono di farli apparire perfino legali, perché prodotti fuori dalle maglie delle normative europee. Certo, non che le normative europee puntino proprio al top della qualità e della trasparenza in termini di industria alimentare: i dati di Coldiretti fanno accapponare la pelle e il problema dell’approvazione di trattati come CETA o TTIP, di cui ancora troppo poco si sente parlare e si sa, sono proprio innestati su questioni come queste… quali? Per esempio quella del “trucco” dei fiori di cartamo, sostituiti allo zafferano per risparmiare su costi e tempi di produzione; per esempio la commistione di peperoncino ionizzato e sterile proveniente dal Sudafrica con uno pieno di microbi proveniente dalla Cina, o ancora container di peperoncino in fiocchi misto a topi vivi e morti, escrementi e peli. Problema risolto. Come? Triturando finemente il carico e mescolandolo a peperoncino puro, in modo da rientrare, insospettabili, nelle soglie consentite di materia “estranea”.

Casi inquietanti e gravissimi come quelli descritti non saranno la regola, e siamo fiduciosi che non siano all’ordine del giorno. Ma è innegabile che un giro d’affari come quello derivante dall’industria del cibo possa causare perdite in denaro significative che, a volte, chiudendo un occhio e magari anche due, si riescono ad evitare. Perché non si tratta solo di malafede o di volontà criminale, a volte è “semplicemente” questione di mancanza di investimenti e risorse per gestire al meglio i controlli interni ed esterni. E dispiace riconoscerlo, ma è proprio la Cina in prima linea nella triste classifica delle frodi alimentari, dal tofu sbiancato all’olio di scolo.

Insomma, occorre spenderci un po’ su questa questione: di tempo per informarsi, ma anche di risorse per avere prodotti di maggiore qualità. Il fatto che le nostre librerie siano sempre più fornite di testi che mettono in luce connessioni da brivido tra cibo, interessi economici e illegalità segnala anche una crescente domanda di informazioni ed esplicita l’attenzione dei consumatori stessi verso ciò che acquistano e mangianoe mangiare è più di ogni altra attività un gesto di costruzione di noi stessi, di nutrimento delle cellule che come infiniti mattoncini ci tengono vivi e vegeti. “Vegeti” significa, certo, in salute, ma forse vale la pena ricordarci ancora una volta anche l’importanza di una dieta il più possibile vegetale, costituita da prodotti locali affidabili per produzione e sembianze e non polverizzati o liofilizzati, non solo perché coltivati in maniera sostenibile secondo i ritmi delle stagioni, ma anche perché curati da realtà piccole e più facilmente monitorabili anche dai nostri stessi occhi, cosa che, oltre a sostenere un’economia sana e a tutela dei piccoli, contribuisce a costruire fiducia e qualità per ciò che acquistiamo.

Articolo di Anna Molinari

L’articolo originale può essere letto qui