UDIENZA DI PALERMO, 18-20 DICEMBRE 2017

 ATTO D’ACCUSA

Questa sessione del Tribunale Permanente dei Popoli è chiamata ad accertare, e ad elaborare le deliberazioni conseguenti, se le politiche adottate dall’Unione Europea in tema di migrazione e asilo, di cui sono espressione politiche, normative e prassi recenti degli Stati membri, configurino, nei loro effetti concreti sul popolo migrante, un crimine contro l’umanità e/o prefigurino gravi violazioni degli articoli sanciti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli firmata ad Algeri il 4 luglio del 1976.

Si ricorda che sotto la definizione di crimine contro l’umanità ricadono, secondo l’art. 7 dello Statuto di Roma, le seguenti azioni:
a) Omicidio; b) Sterminio; c) Riduzione in schiavitù; d) Deportazione o trasferimento forzato della popolazione;
e)  imprigionamento o altre gravi forme di privazione della libertà personale in violazione di norme fondamentali di diritto internazionale; f) Tortura; g) Stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità; h) Persecuzione contro un gruppo o una collettività dotati di propria identità,
inspirata da ragioni di ordine politico, razziale, nazionale, etnico, culturale, religioso o di genere sessuale (…); i) Sparizione forzata delle persone; j) Apartheid; k) Altri atti inumani di analogo carattere diretti a provocare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi danni all’integrità fisica o alla salute fisica o mentale.

Si ricorda altresì che la Dichiarazione d’Algeri sancisce il diritto all’assistenza (sezione I) e all’autodeterminazione politica (Sezione II) di ogni popolo; nonché i diritti economici dei popoli (Sezione III); il diritto alla cultura (Sezione IV); il diritto all’ambiente e alle risorse comuni”; e i diritti dei popoli che rappresentano delle minoranze (Sezione VI). La dichiarazione di Algeri stabilisce quindi che qualsiasi inosservanza delle disposizioni contenute in essa “costituisce una trasgressione di obblighi verso la comunità internazionale tutta intera” (art. 22); che “tutti i trattati, accordi o contratti non paritari, approvati in spregio dei diritti fondamentali dei popoli non possono produrre alcun effetto (art. 25); che “le violazioni più gravi dei diritti fondamentali dei popoli, soprattutto il loro diritto all’esistenza, costituiscono crimini internazionali che comportano la responsabilità penale individuale dei loro autori” (art. 27) e che, infine, “il ristabilimento dei diritti fondamentali di un popolo, quando essi sono gravemente misconosciuti, è un dovere che si impone a tutti i membri della comunità internazionale” (art. 30).

Il Tribunale Permanente dei Popoli non è infatti tenuto, come lo sono invece i tribunali penali nazionali e internazionali, a delimitare il proprio ambito di indagine e giudizio solo in relazione al diritto penale sancito a livello nazionale e internazionale, ma può includere nella propria competenza violazioni sistemiche dei diritti dei popoli che non integrano direttamente o esclusivamente fattispecie penali di diritto positivo.

In questo quadro, vanno prese in considerazione, in particolare, le politiche di esternalizzazione dal governo italiano – condotte con il sostegno politico ed economico dell’UE – realizzate attraverso accordi con i paesi di origine e di transito dei migranti, e in particolare con la Libia, valutando i loro effetti sostanziali sui diritti del popolo migrante costretto ad attraversare la rotta del Mediterraneo centrale inteso come frontiera meridionale dell’Europa.

Si ricorda infine che l’aver ricondotto alla categoria di “popolo” la complessità degli individui che con i loro percorsi differenti sono oggi in migrazione verso l’Europa attraverso le rotte più pericolose, è un diretto risultato delle politiche di chiusura dell’Unione Europea che hanno massificato in un unico popolo di vittime della violenza delle frontiere, donne, uomini e bambini portatori e portatrici di storie e istanze anche molto diverse tra loro.

I  – LA POLITICA UE DI ESTERNALIZZAZIONE DELLE FRONTIERE

Le conseguenze della politica di esternalizzazione delle frontiere, di recente implementata nel quadro del Processo di Khartoum, e che ha visto come tappe fondamentali i vertici di Malta del 2015 e del 2017, vanno urgentemente indagate in relazione alle loro conseguenze in termini di violazione dei diritti umani. Tali eventuali violazioni vanno valutate rispetto a ciò che avviene nei paesi di transito e di origine dei migranti, nelle acque (nazionali e internazionali) del Mediterraneo centrale, e anche sul territorio europeo nel momento in cui, in nome degli accordi coi paesi di origine e di transito, le persone vengono escluse dall’accesso ai diritti (a cominciare dal diritto di chiedere protezione), e poi respinte o espulse in massa senza riguardo alla loro condizione e alla loro storia personale.

La collaborazione con i paesi di origine e transito dei migranti, nella cosiddetta lotta contro l’immigrazione che viene definita “illegale”, sembra alimentare proprio le filiere che quella immigrazione favoriscono e da cui traggono risorse economiche, oltre che rischiare di legittimare governi o autorità nazionali che opprimono le proprie popolazioni.

Va inoltre valutato, rispetto ad accordi come quelli con l’Egitto e il Sudan, o quelli in via di definizione con il Niger, con il Mali, ed in prospettiva con l’Etiopia ed altri paesi dell’Africa subsahariana, quanto simili intese con i paesi di transito e di origine dei migranti implichino la delega alle forze di polizia di questi paesi, nei quali non esiste spesso alcuna garanzia di stato di diritto, né tanto meno la possibilità di ottenere uno status di protezione, il compito di arrestare, respingere e detenere, indistintamente, i migranti in cammino verso l’Europa.

Su questo terreno vanno verificate e valutate le responsabilità dell’Unione Europea, che omette di adottare efficaci misure per contrastare le derive nazionalistiche dei paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia), così alimentando le tendenze xenofobe di parte crescente della popolazione europea.

Tutto ciò va costantemente tenuto in considerazione nell’esaminare le connesse responsabilità degli Stati membri, tra cui l’Italia che, proprio prendendo a modello l’accordo promosso dagli Stati membri dell’Unione Europea con la Turchia nel marzo 2016, ha innescato processi che adesso non appare più in grado di controllare pienamente e che possono avere conseguenze molto gravi, soprattutto in territorio libico e nel Mediterraneo centrale.

Le conclusioni dell’ultimo Consiglio Europeo implicano una precisa assunzione di responsabilità sulle politiche violatrici di diritti fondamentali che si stanno intensificando proprio con riguardo alla rotta del Mediterraneo centrale ed ai rapporti con le diverse autorità libiche.

Al di là delle apparenze, Italia ed Unione Europea parlano in questo, da tempo, con una sola voce: il Migration compact presentato come “non-paper” dal governo italiano, nell’aprile del 2016, prendendo a modello l’accordo con la Turchia del marzo del 2016, si pone in perfetta continuità, anche per la discrasia tra l’esiguo valore legale di questo tipo di documenti e le conseguenze estremamente concrete che hanno prodotto in termini di politiche e di prassi, con l’Agenda Europea del 2015 e con il New Partnership Framework with third countries under the European Agenda on Migration redatto dalla Commissione Ue nel giugno dello stesso anno.

In tutti questi documenti le politiche migratorie, che non comprendono canali di ingresso legali e sicuri, sono incentrate sul blocco dei migranti classificati genericamente come “migranti economici” specie quando provenienti dalla rotta centrale del Mediterraneo, ignorando il fatto che possano essere portatori di istanze di protezione o soggetti vulnerabili.

Nei confronti di tutti gli operatori umanitari che non hanno assecondato queste politiche, si rileva altresì un processo di criminalizzazione in corso che ha alimentato preoccupanti campagne di stampa e movimenti di opinione pubblica che sembrano non dare alcuna priorità alla tutela dei diritti umani delle persone.

Anche quando i migranti riescono ad attraversare il mare, infine, le politiche dell’Unione Europea vanno indagate e giudicate rispetto ad una gestione delle migrazioni sbilanciata verso esigenze di controllo e allontanamento, piuttosto che di tutela dei diritti, con l’istituzione, ad esempio, dei cosiddetti Hotspot, luoghi di selezione e clandestinizzazione che appaiono snodi fondamentali per eseguire i respingimenti e le espulsioni previsti dagli accordi. In questi centri, come accade nei centri di detenzione amministrativa, le persone trattenute hanno difficoltà a fare valere i più elementari diritti di ricorso anche là dove una loro espulsione diretta possa compromettere la loro sicurezza e il loro diritto alla vita.

Per tutte queste ragioni occorre adottare una valutazione dei fatti denunciati che tenga conto delle categorie giuridiche formali, utilizzabili a livello interno o internazionale, ma che riesca anche ad andare alla sostanza delle violazioni subite dalla popolazione migrante in transito e ne individui possibili fonti di responsabilità e condanna.

Le intese e gli accordi stipulati tra gli Stati dell’Unione Europea e i paesi terzi devono essere valutati in considerazione degli effetti che producono, al di là delle affermazioni formali di rispetto dei diritti umani e delle Convenzioni internazionali, con particolare riguardo al diritto alla vita, all’integrità fisica e psichica ed alla libertà personale di quanti ne subiscono le conseguenze.

II – GLI ACCORDI BILATERALI DELL’ITALIA E IL MEMORANDUM CON LA LIBIA

Nel quadro sopra evidenziato, il governo italiano ha chiesto ed ottenuto, con la Conferenza di Malta del 3 febbraio 2017, un sostanziale avallo da parte dell’Unione Europea e un consistente supporto economico, per esternalizzare i controlli di frontiera e trasferire sui paesi di transito i poteri di arresto e respingimento che in passato sono stati esercitati dalle autorità italiane in modo non conforme ai Trattati ed alle Convenzioni internazionali.

Malgrado le condanne definitive da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha riaffermato la sua giurisdizione anche nel caso di violazioni commesse in acque internazionali, e nonostante il peggioramento documentato della situazione politica e militare nei paesi di transito, il governo italiano persegue infatti nei processi di esternalizzazione delle frontiere.

Basti pensare agli accordi con l’Egitto, con la Nigeria e con il Sudan per cogliere immediatamente la problematicità delle intese siglate dall’Italia, spesso allo stato di Memorandum (MoU) neppure approvate dal Parlamento nazionale, rispetto alle conseguenze sulla vita e sui corpi dei migranti che ne sono oggetto. Adesso sembra che i rimpatri in Sudan ed in Nigeria siano stati sospesi, ma andrebbero indagati e valutati gli effetti che tali rimpatri hanno prodotto sulle persone migranti che li hanno subiti.

Allo stesso modo, è imprescindibile indagare e valutare oggi le conseguenze concrete sui diritti umani del popolo migrante del Memorandum d’intesa con il Governo di Riconciliazione Nazionale dello Stato di Libia, firmato dal Presidente del Consiglio Italiano il 2 febbraio scorso, che richiama accordi e protocolli operativi stipulati con precedenti autorità libiche che, a differenza di quelle attuali, controllavano l’intero territorio nazionale.

Il governo italiano ha trattato con le autorità di Tripoli e di altre città della Tripolitania nonostante esse non rappresentino, ad oggi, un’entità statale unica guidata da un governo stabile, come dimostrano i conflitti armati in corso. Nella caotica situazione libica, l’autorità dei sindaci delle città libiche con cui il governo italiano ha sviluppato le trattative appare strettamente dipendente dal supporto delle milizie che controllano le stesse città e che hanno gestito per anni e gestiscono ancora, in guerra tra loro, il traffico delle persone migranti. Tali milizie, trasformate spesso in vere e proprie guardie di frontiera, rischiano quindi, ad oggi, di essere foraggiate con risorse economiche italiane ed europee.

È imprescindibile quindi indagare quali responsabilità possano essere ricondotte all’Unione Europea e al governo italiano, rispetto alle gravissime violazioni commesse ai danni dei migranti bloccati in mare dalle forze libiche e poi ricondotti nei centri di detenzione del territorio; luoghi in cui, come ha di recente denunciato anche l’Alto Commissario per i Diritti Umani dell‟Onu, non vige alcuno stato di diritto, efferate violenze sono all’ordine del giorno, e nei quali le persone divengono spesso vittime di compravendita, tratta, schiavitù. Rispetto a questi luoghi, vanno indagate le relazioni tra milizie, polizia e criminali, i fondi con cui sono finanziati, e il loro reale numero sul territorio libico, a partire dalla consapevolezza che ad oggi essi non appaiono nemmeno interamente censiti, con migliaia di migranti tra quelli riportati in terra dalle autorità libiche, che spariscono nel nulla.

A questo proposito, è opportuno approfondire quali siano i centri che il Memorandum definisce genericamente “centri di accoglienza”, proponendo il loro “adeguamento e finanziamento” con fondi italiani e dell’UE “nel rispetto delle norme pertinenti” (art. 2.2).

Nello stesso contesto, vanno indagate anche le cause e le conseguenze dell’allontanamento delle ONG che svolgevano attività di ricerca e salvataggio nelle acque del Mediterraneo centrale, nel pieno rispetto delle leggi e delle Convenzioni internazionali, dopo che gli stati europei avevano imposto la fine dell’operazione Mare Nostrum e avevano ritirato dalla rotta del Mediterraneo centrale la maggior parte delle navi coinvolte nell’operazione Triton di Frontex. Le navi di queste ONG, oltre che essere costrette a firmare un “codice di condotta” che restringe di molto l’indipendenza della loro azione, sono state sottoposte persino ad aggressioni e attacchi armati durante le loro operazioni di soccorso, anche perché lasciate sprovviste di ogni copertura. Appare necessario anche ricostruire la catena di comando che ha portato le Unità navali di Frontex e di Eunavfor Med ad arretrare, allontanandosi dal limite delle acque libiche dove stazionavano in precedenza.

In questo modo, senza testimoni, le motovedette libiche hanno iniziato a raggiungere e bloccare le imbarcazioni cariche di migranti spingendosi indisturbate fino alle acque internazionali anche grazie all’incerta suddivisione delle zone SAR nel Mediterraneo; procedura indagata anche dalla Corte Penale Internazionale e rispetto alla quale appare necessario approfondire anche il ruolo rivestito dal Comando centrale della Guardia costiera italiana (IMRCC).

Si tratta di fatti rispetto ai quali si possono e devono indagare responsabilità per omissione di soccorso – valutando anche le eventuali dirette conseguenze nei naufragi degli ultimi mesi – e per concorso nei reati commessi ai danni dei migranti alle autorità europee e agli organi statali che li hanno determinati, come alle autorità militari che vi hanno dato esecuzione.

Come si è fatto in territorio libico, anche nelle acque territoriali e poi nelle acque internazionali si sono create zone sottratte di fatto a qualsiasi giurisdizione, spazi nei quali le vite e i diritti delle persone possono essere impunemente violati senza che nessuno dei decisori politici o dei vertici militari siano in concreto passibili di una qualsiasi attribuzione di responsabilità.

Le autorità navali e statali che coordinano le attività di soccorso in cooperazione con la Guardia costiera libica non possono ignorare la sorte che subiscono i migranti che ancora in numero consistente vengono “soccorsi” in acque internazionali e riportati in un territorio dal quale non potranno fuggire se non dopo avere subito altri abusi ed altre violenze. Per questo motivo , se è vero che sono la Guardia costiera libica o le milizie libiche a perpetrare in maniera diretta ogni sorta di abusi sulle persone sottoposte alla loro potestà, in assenza di qualsiasi garanzia giurisdizionale o di un qualsiasi sistema giudiziario o  amministrativo che in Libia sanzioni quegli abusi, non si può che imputare alle autorità europee e italiane, che quegli accordi hanno concluso, finanziato ed eseguito, una precisa responsabilità.

Una responsabilità simile codesto Tribunale è chiamato ad indagare anche sulle conseguenze dell’accordo bilaterale dell’Italia con il governo egiziano, il cui pieno funzionamento rispetto all’effettività dei rimpatri è ad oggi preso a modello per perfezionare anche altri accordi bilaterali con paesi di origine e di transito dei migranti. Rimangono infatti forti dubbi sulla legittimità dei rimpatri collettivi verso l’Egitto effettuati con personale di polizia egiziano che arriva in Italia per prendere in carico negli aeroporti le persone sottoposte ad allontanamento forzato, private anche della possibilità di chiedere protezione internazionale o di impugnare per altre ragioni i respingimenti.

Date queste premesse, il Tribunale Permanente dei Popoli, nella Sessione di Palermo del 18, 19 e 20 dicembre 2017, è chiamato a valutare:

 Se le politiche dell’Unione Europea sulle migrazioni e l’asilo, a partire dalle intese e gli accordi stipulati tra gli Stati dell’Unione Europea e i paesi terzi, costituiscano una negazione dei diritti fondamentali della persona umana, mortificandone la dignità definendola “illegale” e ritenendo “illegali” le attività di soccorso e di assistenza in mare.

 Se l’arretramento delle unità navali di Frontex e di Eunavfor Med abbia contribuito all’estensione degli interventi della Guardia costiera libica in acque internazionali al fine di bloccare i migranti in viaggio verso l’Europa, ponendo in secondo piano l’obbligo di rintraccio e soccorso, configurando anche una responsabilità omissiva.

 Se le attività svolte in territorio libico e in acque libiche e internazionali dalle forze di polizia e militari libiche, nonché dalle molteplici milizie tribali e dalla c.d. “guardia costiera libica” a seguito del Memorandum del 2 febbraio 2017 firmato con l’Italia configurino – nelle loro conseguenze di morte, deportazione, sparizione delle persone, imprigionamento arbitrario, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, e in generale persecuzione contro il popolo dei migranti in quanto tali – un crimine contro l’umanità.

 Se, una volta accertato tale crimine, rispetto ad esso l’Italia agisca in concorso perché le azioni delle forze libiche ai danni dei migranti, in mare come sul territorio della Libia, sono svolte in attuazione del suddetto memorandum firmato dal Presidente del Consiglio italiano con il Governo di Riconciliazione Nazionale dello stato libico.

 Se, a seguito degli accordi con la guardia costiera libica, gli episodi di aggressione denunciati dalle ONG che svolgevano attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo siano indirettamente ascrivibili anche alle responsabilità del governo italiano, eventualmente in concorso con le agenzie europee operanti nello stesso contesto.

 Se l’allontanamento forzato delle navi delle ONG dal Mediterraneo, indotto anche dal “codice di condotta” imposto dal governo italiano, abbia indebolito significativamente le azioni di ricerca e soccorso dei migranti in mare e abbia contribuito ad aumentare quindi il numero delle vittime.

 Se i rimpatri collettivi verso l’Egitto, effettuati sulla base dell’accordo bilaterale firmato dall’Italia con quel paese, violino i diritti umani di chiedere asilo e di accedere a un ricorso effettivo e comportino un alto rischio di violazione di altri diritti fondamentali delle persone, inclusi quello alla vita e quello di non subire torture e imprigionamenti arbitrari.

Questo atto di accusa è stato redatto da un gruppo di lavoro coordinato dall’avv. Fulvio Vassallo
Paleeologo, Presidente di ADIF (Associazione diritti e frontiere), a nome di novantasei associazioni e ONG italiane.

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