Stress post traumatico, ansia, depressione. Sono questi i disturbi psicologici più diffusi tra i migranti. A registrarli un rapporto di Medici senza Frontiere, che segnala come in molti casi non esista uno screening attivo per valutare la necessità di un supporto nei centri che li accolgono. Riconoscere il malessere prima che esploda. Perché guerre, viaggi della speranza, prigione, torture o anche solo la rottura con la propria terra di origine non possono non avere conseguenze psicologiche. Solo che è difficile riconoscere e curare i sintomi del disagio mentale di qualcuno che è in un barcone in mezzo a migliaia di altre persone, a cui si cerca in primis di salvare la vita. È impossibile, poi, se nelle strutture di accoglienza non c’è personale specializzato. Psicologi e psicoterapeuti in grado di seguire durante l’accoglienza i rifugiati.

Servono quindi psicologi anche nei centri di prima accoglienza, integrare i centri con i servizi pubblici, prendere contatti con il medico di base e con le strutture del territorio. Dobbiamo fare in modo che la prima accoglienza sia più breve per i rifugiati politici con il disagio mentale possibile e favorire il trasferimento nella rete Sprar, che garantisce una maggiore dignità nell’accoglienza e sostegno all’inserimento sociale. La realtà dei Cas (centro di accoglienza straordinario)   dovrà necessariamente subire una evoluzione. tutti coloro che soffrono fisicamente e psicologicamente vanno accompagnati e tutelati, senza creare falsi luoghi comuni e stigma sociale.

Un sistema di accoglienza che ha diverse lacune: “Un sistema – scrive Atai Walimohammad, interprete afgano che lavora a Rodi Garganico presso SPRAR M.S.N.A (minori stranieri non accompagnati) – che, di fronte a una popolazione particolarmente disagiata, risponde in maniera emergenziale, senza un’adeguata preparazione”. In molti casi, ad esempio, non esiste uno screening attivo per valutare la necessità di un supporto della salute mentale tra gli ospiti dei centri. “I servizi sanitari territoriali spesso mancano di competenze e risorse necessarie – spiega Atai  – e non sono ancora in grado di riconoscere i segni del disagio. Non solo: sono sporadiche, quando non del tutto assenti, figure come quella del mediatore culturale e la permanenza presso i centri è prolungata e sovente fonte di ulteriore disagio”. Eppure “in Italia c’è chi prova a lavorare per migliorare la situazione.  in un centro con 120 immigrati e li conosco ormai tutti, dunque è più facile seguire chi ha crisi di panico, piange, ha incubi o è in depressione. Alcuni non vogliono parlare, ma poi se vengono seguiti si aprono” spiega Atai Walimohammad.