Qualche settimana fa, nell’ambito della Giornata internazionale contro la Violenza sulle Donne, la cittadina di Cortona, in Provincia di Arezzo (che dunque non ospita soltanto banche inguaiate), ha potuto incontrare due donne già insignite delle più alte onorificenze a livello globale: Leymah Gwobee, 45 anni, “premio Nobel per la Pace” nel 2011, e Lamyia Bashar, 17 anni, “premio Sacharov per la Difesa della Libertà di Pensiero” nel 2016. Due donne diverse per età, contesti culturali, orizzonti valoriali, ma accomunate dalla determinazione che solo scelte coerenti e non-violente possono portare a un vero sviluppo umano.

Leymah Gwobee, liberiana, ha combattuto tra il 1999 e il 2003, la guerra civile che ha portato alla democrazia in questo paese. Dopo la fine della guerra civile, Leymah ha affrontato, con il suo carattere assai forte, il problema dell’inserimento delle donne nella vita civile e nella loro valorizzazione umana nel mondo culturale e lavorativo, ma anche e soprattutto per il loro continuo impegno nella ricerca di soluzioni pacifiche per ogni problema ed in ogni settore. Per questo suo grande impegno ha ottenuto il premio Nobel, insieme ad altre due donne, Ellen Johnson Sirleaf, prima donna Capo di stato in Africa e ora presidente uscente della Liberia, e Tawakkul Karman, giornalista yemenita, con la motivazione: “per la loro battaglia non violenta a favore della sicurezza delle donne e del loro diritto alla piena partecipazione nell’opera di costruzione della pace”.

Nel 2002 esasperata dagli orrori della guerra civile decise di creare un esercito di donne: cristiane e musulmane marciarono insieme verso la capitale Monrovia e la assediarono con un sit-in durato un mese, con iniziative che andavano dai gruppi di preghiera allo sciopero del sesso verso i propri mariti. La tenacia, la forza e il coraggio non sono mai venute meno in questa donna ed hanno spinto Leymah a proseguire la sua battaglia per i diritti delle donne e del suo popolo con iniziative pacifiste e femministe: per questo è stata definita “La signora che sconfisse la guerra”.

Parlare con Leymah Gwobee, significa ascoltare un punto di vista molto particolare delle problematiche africane, non essendo abituati a seguire la vita politica di questo immenso continente, e non sapendo quanto le donne siano ormai influenti ed anche al vertice di organizzazioni politiche, di partiti e movimenti, ed anche di governi e Stati. A proposito della pace nei vari paesi africani Leymah Gwobee sostiene che è assai difficile sperare, al momento, ad una pace duratura in nessuno dei paesi che sono generalmente governati da dittatori certamente “soft”, ma altrettanto certamente interessati economicamente al loro potere. Ad esempio, nella guerra civile del Sud Sudan, che continua ormai da oltre tre anni nonostante la mediazione di USA e GB, Leymah sostiene che finché non interverrà un ente “super partes”, non sarà assolutamente possibile trovare una soluzione per un “governo di pacificazione”. Il presidente Salva Kiir non mollerà mai il potere che gli arriva dalle armi, guarda caso fornite proprio da USA e GB. L’opzione di blocco delle forniture delle armi al Sud Sudan governativo e ribelle è sempre stata respinta in tutte le sedi, iniziando dai Paesi Arabi, dal Giappone, ecc. Che ci siano dietro interessi privati, sembra assolutamente chiaro ed indiscutibile.

La sua battaglia, Leymah la definisce “una battaglia femminilmente pacifista”: una lotta pacifica per i diritti della donna e per la Pace. Dolce e sicura, nonostante i suoi trascorsi di violenze subite, è la seconda protagonista di questo incontro cortonese. Lamyia Bashar è una ragazza “yazida”. Viveva con la sua famiglia in un paese del Irak del nord, quando le milizie dell’ISIS (Daesh) hanno messo a ferro e fuoco il villaggio, uccidendo uomini e donne anziane e portando via le ragazze utilizzabili per lo sfruttamento sessuale di soldati e buoni acquirenti. Lamyia aveva 15 anni. Questa ragazza è stata tenuta in schiavitù per alcuni mesi, passando di mano in mano attraverso la “proprietà” di cinque trafficanti e sfruttatori. Non vogliamo pensare alla sua esperienza ed ai sentimenti che possa aver provato Lamyia: guardandola negli occhi neri, profondi ed espressivi, si intuisce l’orrore di quanto subito, ma si intuisce anche la pace interiore che ora ha dentro.

Quando è riuscita a scappare dal suo ultimo “padrone”, nella fuga è saltata su una mina anti-uomo (fornita da chi?) ed è rimasta sfigurata nel volto e quasi cieca. Dopo diverso tempo trascorso in campi profughi, che sappiamo bene non essere proprio campeggi di lusso, per sua fortuna è riuscita a raggiungere la Germania, dove è stata curata e le è stato ridato un volto bello e dolce, che nasconde sia le sofferenze, sia le brutalità umane che ha attraversato nella sua giovanissima e brevissima esperienza. L’Europa ha insignito lei e una sua amica un pochino maggiore di lei del premio Sacharov 2016 “per il loro impegno in favore della comunità yazida”.

Alla domanda specifica sui suoi sogni, Lamyia ha risposto che il suo sogno è “la pace dovunque, e la fine di ogni discriminazione etnica e religiosa, dovunque”.

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