Se il 2015 è stato l’anno delle mega-acquisizioni, il 2017 si avvia a lasciare un’eredità pesante nell’agroalimentare: oltre all’annunciato matrimonio tra Monsanto e Bayer, hanno fatto scalpore l’unione tra Agrium e Potash Corp. nel settore dei fertilizzanti, l’acquisizione di Whole Foods da parte di Amazon e l’offerta di Kraft-Heinz per Unilever.

Un report di IPES-Food, intitolato Too big to feed, accende i riflettori su una tendenza in atto da decenni. In ognuno dei cinque principali rami dell’industria agroalimentare (agrochimica, semi, farmaceutica per animali, genetica e macchinari agricoli), le quattro multinazionali più grandi controllano oltre il 50% del mercato.

È l’esito finale di una spinta alla creazione di oligopoli non solo più vasti ma anche più “ibridi”, con una compenetrazione crescente tra settori. Il 60% del business globale dei semi e il 75% delle vendite di pesticidi, in particolare, fanno capo alle cosiddette Big Six: Syngenta, Bayer, Basf, DuPont, Monsanto e Dow.

Cosa significa in concreto? Prima di tutto che il potere contrattuale delle aziende produttrici di sementi e fitofarmaci aumenta a dismisura, a scapito degli agricoltori. Senza contare i condizionamenti che i conglomerati esercitano sulla ricerca scientifica e la politica, come testimonia la vicenda dei Monsanto Papers.

Ma ci sono altri effetti indiretti da prendere in considerazione. L’agricoltura intensiva propugnata da questi giganti necessita infatti di forti input chimici. Anche in questo caso, c’è chi paga il conto per tutti: quest’anno per esempio la propagazione accidentale del dicamba, un erbicida simile al glifosato, ha portato negli Stati Uniti alla distruzione di circa il 4% delle coltivazioni di soia.

Per ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura occorre insomma ridurre la dipendenza dalle multinazionali. E l’agroecologia resta la via d’uscita più immediata.

Gaetano Pascale da Slowfood.it

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