Una riflessione sui percorsi della pace e le prospettive della riconciliazione è una sfida necessaria, nel tempo della ricomparsa guerra permanente e della rinnovata minaccia nucleare. Bene ha fatto il Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli a ospitare nel programma degli eventi della sua IX edizione, in corso nella metropoli partenopea sino al prossimo 11 novembre, una tavola rotonda con confronto e film su queste tematiche, in occasione del 25esimo anniversario della guerra di Bosnia e della disgregazione della Jugoslavia.

Sono passati 25 anni da quella primavera del 1992 che inaugurò, con lo scoppio delle ostilità in Bosnia, la deflagrazione della conflittualità etno-politica, l’instaurazione di un nuovo paradigma che avrebbe trovato la sua più eclatante affermazione pochi anni dopo, ancora nei Balcani, in Kosovo, e l’urbicidio pianificato che ha accompagnato, da allora e per più di 1400 giorni, l’assedio più lungo della storia dei tempi recenti, a Sarajevo, capitale della Bosnia e città-simbolo di mille universi e linguaggi, religioni e culture plurisecolari.

Le guerre dei Balcani lasciano ferite profonde, ben visibili perfino a uno sguardo sommario sulla carta geografica della Bosnia odierna, dopo la guerra etno-politica e la riformulazione politico-istituzionale prodotta dagli «Accordi di Dayton», proprio per il carattere distorto e paradossale dei nuovi assunti che inaugura: una «guerra celeste» (ancora di più lo sarebbe stata quella contro la Serbia del 1999), segnata dalla superiorità tecnologica delle potenze occidentali; una «guerra in presa diretta», raccontata spesso da giornalisti al seguito degli aggressori anziché al lato degli aggrediti; una guerra che finisce, attraverso la propaganda e la manipolazione, perfino per mortificare le parole e il loro significato, come ricorda Michele Nardelli: «Nel nome … dei diritti umani si fece grande uso di uranio impoverito e di armi chimiche. L’altro era la barbarie e anche i luoghi e le testimonianze di una cultura millenaria diventavano obiettivi di guerra».

Tutto ciò non impedisce, anzi rafforza, la convinzione di contrastare la “militarizzazione” della memoria e di esplorare le vie della riconciliazione. Ma quale riconciliazione? Se e come, in che termini e attraverso quali modalità, sia possibile passare dalla coesistenza, contrassegnata da una quantità di separazioni e barriere, troppo spesso mentali oltre che fisiche, imposta da Dayton, alla convivenza, riattivando e aggiornando l’eredità migliore della convivenza trans-nazionale nello spazio jugoslavo, sono stati i temi e gli interrogativi della tavola rotonda ospitata dallo spazio polifunzionale di «Piazza Forcella», a Napoli, il pomeriggio e la sera del 7 novembre, per l’evento centrato sul tema: «La Bosnia e i Balcani: orizzonti della riconciliazione».

Preceduto dalla testimonianza di Luca Saltalamacchia, che ha ricordato due tra le più significative esperienze di solidarietà internazionale e di “diplomazia dal basso” sperimentate dalla società civile in Bosnia all’inizio e all’indomani della guerra (rispettivamente, la «Marcia dei Cinquecento», nel 1992 e il Progetto «Duga» a Sarajevo e Lukavica, tra le due parti della Sarajevo divisa dalla guerra, nel 1996), l’intervento di Rosanna Morabito ha messo in luce gli aspetti perfino linguistici di una contrapposizione che attraversa l’intera società «bosniaca» (in quanto condivide la comune appartenenza al territorio della Bosnia Erzegovina), alimenta la disarticolazione della comune lingua serbo-croata (fino a ricostruire un lessico distinto per una specificità linguistica «bosniaca») e rinfocola le distinzioni tra «bosniacchi» o «bosgniacchi» (bosniaci musulmani) da una parte, e croati e serbi di Bosnia (questi ultimi nella Republika Srpska) dall’altra.

Se, da una parte, come ha riferito Maite Iervolino, è l’idea stessa di confine a dover essere trascesa e il concetto stesso di ponte, a cavallo tra le due sponde dell’Adriatico, a dover essere aggiornato, costruendo nuove occasioni di confronto e scambio culturale e di tessuto e condivisione dei vissuti, dall’altra, come ha rimarcato Francesco Soverina, non è possibile una memoria condivisa. Si tratta invece di affrontare la sfida delle memorie accoglienti, che non escludano le storie e le memorie “degli altri”, entro una cornice di salvaguardia democratica e di diritti umani e traggano alimento da una vera assunzione di responsabilità nei confronti degli eventi tragici degli anni Novanta: eventi su cui hanno agito nuclei locali di potere nazionalistico, ma su cui hanno pesantemente interferito potenze straniere e poteri esterni, interessati alla disgregazione del socialismo jugoslavo e all’acquisizione di nuove sfere di influenza politica ed economica.

La riconciliazione resta una strada necessaria e difficile, dunque, se è vero che le divisioni permangono, che il 70% dei giovani nei Balcani Occidentali mostra un atteggiamento negativo nei confronti dei giovani dei paesi vicini, che le occasioni di autentico confronto inter-culturale e la possibilità di una effettiva mobilità trans-nazionale sono tuttora assai limitati, al punto che oggi per il regime dei visti tra paese e paese, come ricorda Ðuro Blanuša, «andare dalla Bosnia al Kosovo è una vera e propria mission impossible».

E così, alla fine, Raffaele Crocco riconduce l’attenzione al ruolo dei media e delle pubbliche narrazioni e all’importanza di un percorso di verità e di giustizia, che coinvolga tutte le comunità di Bosnia, per rilanciare non più solo la speranza, ma soprattutto la praticabilità di una ricomposizione e quindi in prospettiva di una riconciliazione, che si nutra di relazione e di convivenza e faccia spazio alla democrazia e ai diritti umani.

Non a caso, il film scelto per alimentare la riflessione ha come tema la “dimora”. «Home(s)», prodotto dal Festival Cinematografico dei Diritti Umani di Sarajevo nel 2016 (che, tra l’altro, si svolge quest’anno, nella sua XII edizione, negli stessi giorni del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, del quale è partner), è un film cooperativo, tra sperimentazione e video-arte, basato su un progetto di ricerca che ha chiesto a sette autori, in sette giornate, di cimentarsi sul tema «Home(s)», «Casa/e»: spazi e luoghi immaginari per amori e relazioni immaginari, a cavallo tra topografie della dimora, ora concrete, ora ideali.

Una riflessione sulla prossimità e sullo spaesamento, quasi una rappresentazione della Bosnia attuale.  «Abitare i conflitti significa indagarli, comprenderne le dinamiche di potere, provare a immaginare nuove e diverse narrazioni rispetto a quelle delle parti in conflitto. È il complesso lavoro dell’elaborazione del conflitto, … che la cooperazione internazionale si guarda bene dal fare, ma senza il quale il tempo rimane sospeso, le guerre si portano dentro e il passato non passa. Nella costruzione di relazioni, nel cercare di favorire il dialogo … c’è l’essenza di un impegno che prescinde dai progetti, perché le relazioni profonde non finiscono mai. Disporsi alla meraviglia, aprire occhi e orecchie, essere presenti al proprio tempo».

Ancora in una riflessione di Michele Nardelli troviamo uno spunto che può accompagnare le conclusioni della tavola rotonda e un contributo per continuare ad alimentare, con la speranza, iniziativa e impegno.