Il caso Weinstein ha scoperchiato il classico vaso di Pandora su tutta una serie di vicende dolorose e poco edificanti che da sempre caratterizzano lo show business, ma non solo: lo “scandalo” delle molestie sessuali sulle donne non risparmia nessun settore, dal giornalismo allo sport, dai salotti intellettuali al mondo delle aziende e delle università. Trattandosi di una questione che molto ha a che fare con il potere, però, non poteva non coinvolgere anche il luogo del potere per eccellenza, ovvero la politica: ed è così che in Francia, Gran Bretagna, Austria, Usa, tantissime donne hanno finalmente rotto il silenzio, coinvolgendo nelle loro denunce funzionari, deputati e ministri. Per non parlare di istituzionicome il Parlamento europeo e le Nazioni Unite, che lo stesso non sono state risparmiate dalla valanga inarrestabile di racconti fatti di avances e contatti non graditi, pressioni e minacce fisiche e psicologiche, fino ad arrivare a veri e propri assalti e stupri. E mentre c’è chi parla di “caccia alle streghe”, con teste che cadono anche per avvenimenti risalenti a molti, troppi anni prima, la pubblica gogna continua in realtà ad essere tutta per la donna che denuncia, segno che la strada che dobbiamo percorrere verso una società più giusta per tutti è ancora lunga.

Sono soprattutto le donne dello spettacolo ad essere prese di mira, come se la loro professione ne facesse delle persone “corrotte” per natura, pronte a tutto pur di ottenere fama e successo. Peccato che lo stesso meccanismo si ripeta anche negli altri settori, un meccanismo nel quale sono soprattutto gli uomini a detenere il potere (che forse, il giorno in cui questo sarà equamente distribuito allora magari le cose saranno diverse). Ad esempio, il giorno dopo che il New York Times ha diffuso l’accusa di molestie sessuali compiute per anni dal produttore cinematografico Harvey Weinstein, la rivista Science ha pubblicato un articolo altrettanto inquietante sul geologo antartico David Marchant e le presunte violenze fisiche e verbali ai danni di sue due ex dottorande durante lo svolgimento di due spedizioni. Anche in questo caso le accuse si sono levate molti anni dopo, ma anche nel mondo accademico si parla di abusi e violenze sistematiche: in un sondaggio online pubblicato su PLOS ONE e riportato sempre dalla rivista Science nel 2014, il 71 per cento delle 512 donne intervistate ha riferito di essere stata molestata sessualmente durante il lavoro sul campo; l’84 per cento di loro erano tirocinanti. “Alcune vittime temono che la denuncia di un abuso metta fine alla loro carriera” scrive la giornalista Marina Koren su The Atlantic, che cita un altro studio del 2014 dove il 64 per cento delle scienziate coinvolte riferiva di aver subito molestie sessuali durante il lavoro e il 20 per cento di essere stata stuprata. E poi ci sono le minacce, il timore che l’accusa possa ritorcersi contro di loro, la paura di non essere credute. Diverso ambito, insomma, ma stesso copione, in un sistema autoperpetuato dal silenzio e dalla vergogna.

Oggi molti uomini si dicono confusi, alcuni addirittura impauriti, si chiedono quale sia il limite tra avance e molestia, si chiedono se non si stia esagerando. Tanti sono nostri parenti, amici, colleghi, spesso in piena buona fede: ma questo significa che, se da una parte si è iniziato finalmente a parlare, dall’altra è necessario che si cominci ad ascoltare e provare a capire. E se è vero che una donna potrebbe aver accettato in modo consenziente di “fare sesso per fare carriera”, resta il fatto che le vittime vere esistono, e sono molte, troppe, spesso con storie tragiche e dolorose (secondo gli ultimi dati Istat, sono oltre 1 milione e 500mila le donne fra i 18 e il 65 anni che hanno subito ricatti sessuali nell’arco della loro vita lavorativa).

Molte non vogliono più essere tali e il successo dell’hashtag #metoo mostra quanto la misura fosse colma: come se tutte finalmente avessero trovato il coraggio l’una nell’altra per mettere fine all’omertà, ai ricatti e al clima di paura che circondano una pratica tanto antica quanto sistematica e odiosa. Le reazioni, poi, sono sempre soggettive. I leoni da tastiera e paladini del bianco e nero non fanno che dire: “La dignità prima di tutto! Se non voleva, avrebbe potuto dire no”. Senza pensare che in relazioni dove lo squilibrio di potere è forte, a maggior ragione in ambito lavorativo, la persona che subisce la molestia è sempre costretta ad effettuare scelte difficilissime in poche frazioni di secondo. In un interessante articolo pubblicato su Bust Magazine (qui la traduzione in italiano), la scrittrice statunitense Dina Honour parla di una donna costantemente costretta a stare tra l’incudine e il martello, obbligata ogni giorno ad effettuare mille calcoli tra opzioni spesso ugualmente schifose. “Una donna molestata sessualmente sul lavoro deve decidere se parlarne apertamente con la possibilità di rischiare la sua carriera, una promozione, la sua reputazione professionale. Deve decidere se denunciare il capo palpeggiatore all’ufficio personale vale il rischio – scrive –. Incudine: capo lascivo che ti palpa il culo. Martello: brutte valutazioni che possono stroncare le sue prospettive di carriera, l’essere segnata sulla lista nera nell’intera industria, l’essere cacciata via dal lavoro”.

Certo, la questione è prima di tutto culturale e ci vorrà molto tempo affinché le cose cambino, a prescindere dalle teste cadute e dai processi sommari, ormai tipici delle dinamiche online. Ma qualcosa si è mosso a livello globale, Italia compresa, che si prepara alla grande manifestazione nazionale a Roma del 25 novembre organizzata dal movimento “Non una di meno”. Anche quest’anno in tantissimi tra associazioni, collettivi e persone singole hanno già risposto all’appello, compresi naturalmente coloro che il problema delle molestie lo vivono sul campo a livello professionale: “Gli hastag #metoo e #quellavoltache hanno consentito di portare sulla piazza virtuale di Twitter, Facebook e Istagram quello che da oltre 30 anni le donne hanno raccontato e raccontano negli 80 Centri antiviolenza presenti in tutta Italia della rete Di.Re” spiega ad esempio Lella Palladino, Presidente dell’Associazione Nazionale Di.Re (Donne in rete contro la violenza). Loro, che con le donne abusate si confrontano ogni giorno, sanno bene il motivo per cui quasi mai si parla delle violenze subìte: “per vergogna, per timore di non essere credute, per la certezza di essere colpevolizzate, perché in tante sperimentano la rivittimizzazione sia nei circuiti giuridici che nei contesti socio sanitari di accoglienza”. E’ davvero tanto difficile da comprendere?

Anna Toro

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