Il 16 ottobre a Bidnija, nell’isola di Malta, una bomba ha fatto saltare in aria l’auto della giornalista e blogger Daphne Caruana Galizia, uccidendola sul colpo. Ancora sconosciuti i mandanti e gli autori del delitto, ma la reporter aveva lavorato ai MaltaFiles, l’inchiesta internazionale generata dai Panama Papers, che indicava Malta come “lo Stato nel Mediterraneo che fa da base pirata per l’evasione fiscale nell’Unione europea”. Il 2 novembre, Giornata internazionale per porre fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti, diverse organizzazioni impegnate sul tema si sono riunite a Londra, fuori dall’Ufficio dell’Alto Commissariato di Malta per chiedere con forza all’Unione europea che faccia pressioni sul governo maltese nella ricerca della verità, così in tanti altri Paesi, Italia compresa, si è invocata la scorta mediatica per le sue inchieste. Perché si sa che, quando potrebbero esserci impelagati i governi o personaggi potenti, la verità è spesso la prima che viene sacrificata e insabbiata. Ma Daphne Caruana Galizia è solo l’ultima di una lunga serie: giornalisti e giornaliste uccisi soltanto perché fanno il loro mestiere, o minacciati, intimiditi, messi a tacere attraverso minacce fisiche e non solo. Anche in democrazie ormai ben avviate come Malta, appunto, o come l’Italia (si pensi all’aggressione del giornalista di Nemo a Ostia da parte di un membro del clan Spada, solo per restare nei tempi recentissimi). Non è un caso che, secondo il Freedom of Press report 2017 della prestigiosa organizzazione Freedom House, la libertà di stampa in tutto il mondo stia andando via via deteriorandosi, registrando nel 2016 il punto più basso in 13 anni (e la situazione generale non fa presagire miglioramenti nel 2017).

“Brasile, Colombia, Honduras e Messico rimangono tra i luoghi più pericolosi al mondo per i giornalisti – si legge nel report – mentre le indagini e il perseguimento dei crimini perpetrati contro di loro vengono continuamente ostacolati”. Basti pensare al Messico, dove i giornalisti che indagano su abusi di polizia, traffico di droga e corruzione governativa sono in costante pericolo di vita: l’anno scorso ne sono stati uccisi nove, e ben dieci solo nei primi otto mesi di quest’anno. Per quanto riguarda i Paesi virtuosi, il report sottolinea che la quota della popolazione mondiale che gode di una stampa libera è pari ad appena il 13 per cento: questo significa che meno di una persona su sette vive in paesi in cui c’è una forte copertura delle notizie politiche, la sicurezza dei giornalisti è più o meno garantita, le intrusioni statali nei media sono minime e la stampa non è soggetta a onerose pressioni legali o economiche. Vi figura buona parte dell’Europa (ma non l’Italia), o anche gli Stati Uniti (seppure in peggioramento). Eppure, come la vicenda maltese ci ha dimostrato, democrazia non è sempre sinonimo di una situazione salubre in ambito di media e libertà di stampa. Succede così che gli Stati Uniti, ma anche la Polonia, le Filippine, o il Sudafrica, durante tutto lo scorso anno avrebbero “attaccato la credibilità dei media indipendenti e mainstream attraverso una retorica allarmante ostile, abusi personalizzati online e una pressione editoriale indiretta”. Freedom House parla di delegittimazione delle fonti critiche o imparziali di informazione, con diversi tentativi di ricreare la copertura delle notizie a loro vantaggio, “rifiutando apparentemente il ruolo di guardia tradizionale di una stampa libera nelle società democratiche”.

E l’Italia? Freedom House la definisce “parzialmente libera”, confermando così le criticità strutturali che valgono al nostro Paese un punteggio di 31 su 100: dai conflitti di interessi irrisolti, al perdurante controllo politico sulla Rai, la debolezza delle normative antitrust, le minacce continuate e ripetute da parte della politica, ma anche della criminalità organizzata, nei confronti dei cronisti e del diritto di cronaca. Si parla di minacce fisiche, verbali e anche di quelle sotto forma di “querele temerarie” che continuano a intimidire e imbavagliare molti cronisti, soprattutto quelli non tutelati. Negli Stati Uniti, invece, dove la libertà di stampa è ancora forte, sono i ripetuti attacchi di Donald Trump, prima come candidato alla Casa Bianca e ora come presidente, a far prevedere tempi bui: “Nessun presidente Usa nella storia recente ha mostrato un maggior disprezzo per la stampa di Trump nei suoi primi mesi in carica nazionale – commenta il presidente di Freedom House, Michael J. Abramowitz –. Ha ripetutamente ridicolizzato i giornalisti definendoli degli impostori, diffusori di ‘false notizie’ e corrotti traditori dell’interesse. Prendendo in prestito un termine diffuso dal leader sovietico Joseph Stalin, Trump ha etichettato i media come ‘nemici del popolo’”. Tra le altre democrazie in cui i leader democratici hanno mostrato disprezzo per la stampa, il report cita l’Ungheria, la Polonia, la Serbia, Israele, il Sudafrica e le Filippine.

Nel frattempo, la pressione nei regimi più autoritari continua senza sosta. “I governi della Russia e della Cina, avendo stabilito un controllo quasi completo sui media nazionali, hanno intensificato gli sforzi per interferire e disturbare anche gli ambienti mediatici nei paesi limitrofi e in quelli più lontani” si legge nel report. Così come le autorità in Turchia, Etiopia e Venezuela avrebbero usato disordini politici o sociali come pretesto per reprimere ulteriormente le testate indipendenti e di opposizione. Si pensi ad esempio alla situazione turca, al cosiddetto golpe fallito e agli oltre 170 giornalisti dietro le sbarre (il numero più alto del mondo). E poi ci sono i paesi dell’Africa sub-sahariana al Medio Oriente fino dell’Asia in cui i governi non mancano di utilizzare anche altre modalità per reprimere la stampa, come le leggi restrittive Internet e l’online, e l’interruzione dei servizi di telecomunicazione in momenti cruciali come proteste o elezioni. Certo, il report di Freedom House non manca di segnalare anche i miglioramenti: in Afghanistan, Argentina, Panama e Sri Lanka, ad esempio, durante il 2016 i governi si sarebbero sforzati di stabilire rapporti migliori con la stampa e i media rispetto agli anni precedenti. “Tuttavia – si legge – gli effetti pratici di molti di questi miglioramenti rimangono ancora da vedere”. E i conflitti e le situazioni di instabilità spesso rischiano di vanificare gli sforzi. E’ di appena pochi giorni fa, ad esempio, l’attacco all’emittente satellitare di Kabul, Shamshad, da parte dell’Isis, che ha provocato almeno quattro morti e una ventina di feriti.