Proprio in questi giorni di ottobre, ricorre il venticinquesimo anniversario di uno degli eventi più tragici e dimenticati della guerra di Bosnia, della quale ricorre il venticinquesimo dell’inizio delle ostilità, della tragedia bosniaca, della dissoluzione jugoslava. A Prozor, a metà strada tra Mostar, a sud, e Travnik, a nord, si consumò, nell’ottobre del 1992, il massacro di centinaia di bosniaci musulmani ad opera delle milizie croate. La sera del 24 ottobre, in buona sostanza, tutti i residenti musulmani erano stati eliminati, arrestati o costretti alla fuga.

Più tardi, nel giugno del 1995, dopo la strage di Tuzla e prima di quella di Srebrenica, nel contesto di azioni e reazioni, uccisioni e vendette, di parte serba o di parte bosniacca, che stavano sempre più devastando la Bosnia, aumentava la preoccupazione circa le possibilità, a livello internazionale, coerentemente, senza ingerenze e senza aggressioni, di un impegno coordinato, di carattere politico e diplomatico, per la cessazione delle ostilità e la fine della violenza, per una soluzione condivisa, inclusiva e sostenibile, e la ricostruzione della pace.

Una soluzione condivisa nel tempo e nello spazio delle memorie divise. Quand’è iniziata la guerra? Già al 6 aprile del 1992 erano partiti i riconoscimenti internazionali della indipendenza unilaterale della Bosnia. Subito prima, il 5 aprile, i cittadini di Sarajevo avevano tenuto una manifestazione per la pace, contro la guerra, una voce contro il nazionalismo; giunti presso l’Holiday Inn subirono i colpi dei cecchini. Suada Dilberović e Olga Sučić furono uccise. Ancora prima, il primo marzo, ancora cecchini avevano sparato contro un corteo nuziale serbo nel cuore di Sarajevo, nella Baščaršija, uccidendo il padre dello sposo Nikola Gardović. In risposta a questo assassinio, i serbi alzarono barricate. Le prime barricate si alzavano a Sarajevo.

Sarajevo è un autentico «crocevia della storia», un crogiuolo di popoli e di culture, il cui valore simbolico conserva la sua attualità. È a Sarajevo che, nel giugno 1914, il giovane irredentista serbo-bosniaco Gavrilo Princip uccise l’arciduca asburgico, dell’impero occupante, Franz Ferdinand. È ancora a Sarajevo che si consuma, nel corso della Guerra di Bosnia, tra il 1992 e il 1995, l’assedio più lungo della storia recente, oltre 1.400 giorni. All’indomani della guerra, Sarajevo, prima simbolo della convivenza multi-nazionale nella Jugoslavia, diventa, con la sua divisione, simbolo della lacerazione della Bosnia Erzegovina dopo Dayton (1995).

Rifondata sulle ceneri di quello che, prima della Seconda Guerra Mondiale, era il Regno di Jugoslavia, nel 1946 la federazione cambiò il nome in Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia e, nel 1963, assunse il nome definitivo di Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia, fino al 1992, l’anno della sua dissoluzione, venticinque anni fa. Tito diede vita alla nuova Jugoslavia all’insegna del motto «fratellanza e unità». Il suo successo fu dovuto anche all’autorevolezza acquisita nella vittoria contro il nazi-fascismo, alla leadership tra i Paesi Non Allineati e al percorso di una propria, autonoma, via nazionale al socialismo: la «autogestione».

Merita di essere citata la riflessione di Milina Jovanović quando, prendendo in prestito le parole di Andrej Grubačić, ricorda che «la Jugoslavia, per me e per quelli come me, non era solo un Paese. Era un’idea. L’immagine stessa dei Balcani è stata il progetto di un’esistenza inter-etnica, di uno spazio trans-etnico e multiculturale di mondi differenti, un rifugio di pirati e ribelli, femministe e socialisti, antifascisti e partigiani, un luogo dove sognatori d’ogni sorta lottavano con forza contro la peninsularità, le occupazioni e gli interventi stranieri».

La Bosnia era lo spaccato di questa complessità: aveva subìto diverse dominazioni, ultima quella asburgica, e sarebbe stata il cuore, con la Serbia e il Montenegro, della resistenza partigiana anti-fascista. Al suo interno si ritrovavano serbi (ortodossi) e croati (cattolici), bosniacchi (musulmani) e una comunità ebraica; e sul suo territorio, a Jaice, a cavallo il 21 e il 29 novembre del 1943, la seconda sessione dell’AVNOJ, il Comitato Antifascista di Liberazione della Jugoslavia, pose le basi della nuova Jugoslavia con la direzione politica di Tito.

Qui trovavano posto le tre grandi religioni monoteistiche e quattro scritture: il latino e il cirillico, l’arabo e l’ebraico. Dopo la morte di Tito e la lunga crisi, in buona misura indotta, degli anni Ottanta, il 25 giugno del 1991 la Slovenia e la Croazia dichiararono l’indipendenza, seguite, l’8 settembre 1991, dalla Macedonia, l’odierna F.Y.R.O.M. L’indipendenza bosniaca fu proclamata più tardi, il 5 aprile 1992. Intanto, con proprio referendum popolare, il primo marzo 1992, il Montenegro aveva votato per continuare a far parte della Jugoslavia.

Dopo la tragedia della guerra, scoppiata venticinque anni fa, insieme con la Bosnia, l’intera Europa non sarebbe stata più la stessa. E nel novembre 1995, a Dayton (in Ohio) viene raggiunto l’accordo di pace che, ponendo fine alla guerra, divide la Bosnia in due entità, la federazione croato-musulmana e la Repubblica Serba. Non esiste più un vero tessuto di convivenza, ma la co-esistenza, fianco a fianco, di comunità distinte nelle rispettive province delle due entità: ciascuna di queste dotata di una propria presidenza e di un proprio parlamento, un proprio governo e una propria burocrazia: due stati di fatto all’interno di uno stato di diritto.

Il sistema istituzionale determinato dalla separazione etnica e confermato negli accordi di Dayton è stato paragonato a un «labirinto inestricabile» con due entità e mezzo (il distretto di Brčko è condiviso tra la Federazione croato-musulmana, che si estende sul 51% del territorio, e la Republika Srpska, che si sviluppa sul restante 49%), cinque presidenti, tre parlamenti, tre governi, due eserciti, due alfabeti, tre religioni, una moltitudine tra ministri, vice-ministri e sottosegretari. Facile (?) immaginare che tipo di burocrazia ne possa derivare. Su Brčko c’è un supervisore inter-nazionale; sull’intera Bosnia Erzegovina un «Alto Rappresentante», con compiti di supervisione previsti dagli Accordi di Dayton e relativi agli aspetti civili.

A Sarajevo, la targa dedicata a Gavrilo Princip nel luogo dell’attentato a Franz Ferdinand del 1914 è stata rimossa e sostituita. È un esempio significativo di «rimozione della memoria» e perciò, essendo simbolico, non è affatto indolore. La vecchia targa jugoslava recitava: «Da questo posto, il 28 Giugno 1914, Gavrilo Princip, sparando, ha manifestato la protesta popolare contro la tirannia e l’aspirazione secolare dei nostri popoli per la libertà». La nuova targa bosniaco-musulmana riferisce invece: «Da questo posto, il 28 Giugno 1914, Gavrilo Princip ha assassinato l’erede al trono Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia».

Culture, memorie, convivenza. All’interno della sessione dedicata alla guerra e ai Balcani, nel contesto della IX edizione del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, discuteremo di questi temi con personalità e attivisti, impegnati e attenti alle vicende balcaniche ed est-europee: Raffaele Crocco, Maria Teresa Iervolino, Rosanna Morabito, Gianmarco Pisa, Luca Saltalamacchia e Francesco Soverina accompagneranno la visione del film «Home(s)», prodotto dal Festival Cinematografico dei Diritti Umani di Sarajevo nel 2016.

Si tratta di un film cooperativo, tra sperimentazione e video-arte, che ha chiesto a sette autori, nell’ambito di sette giornate, di cimentarsi sul tema «Home(s) », «Casa/e»: spazi immaginari per un amore immaginario, a cavallo tra topografie della dimora, ora concrete, ora immaginarie. È una riflessione sulla familiarità e sullo spaesamento, quasi una rappresentazione della Bosnia oggi … Dov’è la città smarrita? Per chi scrivere?… L’evento sarà ospitato presso lo Spazio Comunale di Piazza Forcella a Napoli, martedì 7 novembre a partire dalle 17.30.