Lei è María de Jesús Patricio Martínez, detta Marichuymessicana appartenente al popolo Nahua, una delle quasi sessanta etnie indigene presenti oggi in Messico. E’ nata nella comunità a Tuxpan, nello stato di Jalisco, al tempo in cui la luce elettrica e la pavimentazione stradale lambivano solo la parte più bassa del paese. Le case erano molto umili e non c’era acqua corrente: si dovevano fare lunghe file per riempire i secchi agli unici tre rubinetti disponibili al villaggio. “In quell’epoca dovevo caricare l’acqua in due recipienti appesi a un palo appoggiato sulla schiena, e quando era notte accendevo un rametto per illuminare la strada, se la luna non la illuminava a sufficienza”.

E’ così che l’Università di Guadalajara racconta di lei, di questa donna indigena che è stata eletta dal  Congreso Nacional Indígena (CNI) per tentare di partecipare alle elezioni presidenziali messicane del 2018. Il CNI, formato da 71 consiglieri e consigliere rappresentanti di numerose etnie originarie messicane, venne creato grazie agli Accordi di San Andrés nel 1996, in seguito all’insurrezione zapatista in Chiapas del 1994.

Oggi Marichuy dirige il centro di salute Calli Tecolhuacateca Tochan, la casa degli antenati, luogo di esercizio e sviluppo della medicina indigena tradizionale che è supportato anche dall’Università di Guadalajara. Questa donna di 54 anni ricorda come abbia imparato sin da giovane, osservando la nonna e le zie, ad utilizzare le piante medicinali della tradizione indigena. Piante medicinali sulle quali varie imprese multinazionali stanno mettendo le mani tramite la cosiddetta biopirateria, appropriandosi tramite brevetti di risorse fitogenetiche che fanno parte della tradizione ancestrale indigena, senza che i popoli interessati ne possano trarre alcun beneficio. Il centro riveste un’importanza fondamentale anche nella salvaguardia della lingua nahua, che come tutte le lingue indigene è sotto costante minaccia di sparizione. Il lavoro di Marichuy si è rivelato fondamentale inoltre nel sostenere processi comunitari di emancipazione delle donne indigene, tradizionalmente relegate ai margini della società.

A fine maggio scorso María de Jesús Patricio Martínez è stata dunque eletta dal CNI e dall’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) per concorrere alle presidenziali. L’assemblea, alla quale hanno partecipato quasi mille delegati, si è tenuta a San Cristóbal de las Casas, culla dell’indigenismo messicano e dell’autonomia indigena zapatista. Nel comunicato che è seguito si è lanciato un appello a “organizzarci in tutti gli angoli del paese per riunire gli elementi necessari affinché la nostra portavoce sia registrata come candidata indipendente alla presidenza di questo paese, e a rovinare la loro festa basata sulla nostra morte rendendola la nostra festa, basata sulla dignità, l’organizzazione e la costruzione di un nuovo paese e di un nuovo mondo”. L’intento è quello di “smontare quel potere putrefatto che sta uccidendo i nostri popoli e la madre terra”. L’idea non è quella di “amministrare questo potere putrefatto, ma di smontarlo a partire dalle crepe come sappiamo di essere capaci. Abbiamo fiducia nella dignità di chi lotta: insegnanti, studenti, contadini, operai, lavoratori a giornata, e vogliamo che si allarghi la crepa che ognuno di loro ha scavato, smontando nel piccolo e nel grande il potere di quelli che stanno in alto”.

Marichuy, in varie interviste rilasciate in seguito alla sua nomina, ha dichiarato che il sistema capitalista sta attentando alla vita dei popoli, essendo un sistema patriarcale dove le donne non trovano spazio, soprattutto nelle comunità indigene. Il progetto di nazione di cui lei si fa portavoce è quello di uno stato inclusivo, che viene dal basso e che dal basso si organizza, affinché “parlino quelli che stanno in basso e quelli che stanno in alto ubbidiscano”, echeggiando lo slogan zapatista “aquí manda el pueblo y el gobierno obedece” (qui comanda il popolo e il governo ubbidisce).

Pensare alla possibilità di una presidenta donna e indigena è una sfida che mette in discussione il sistema politico e la società messicana (e non solo quella!) fino alle sue radici. E’ doppio lo stigma che soffrono le donne indigene, per il fatto di essere donne in una società profondamente machista e per di più indigene, in un paese (non il solo) dove gli indigeni soffrono tuttora di pesanti discriminazioni, tassi di povertà molto più elevati rispetto alla popolazione non indigena e ridotto accesso a servizi essenziali come educazione e salute. La proposta del CNI non è realmente diretta alla presa del potere, questione che stride con la connotazione di autonomia di cui i popoli indigeni messicani, a partire dall’esperienza dell’EZLN in Chiapas, si sono fatti portavoce. L’idea è più che altro quella di dare visibilità alla lotta indigena, in contrasto con uno stato che punta invece a cancellare e rendere invisibile ogni diversità, in nome di interessi politici e soprattutto economici.

Il cammino che ora resta da percorrere non è in discesa: si devono raccogliere circa un milione di firme per poter sostenere la candidatura indipendente di María de Jesús Patricio alle presidenziali del 2018.

Comunque vadano le cose, la sfida dei popoli indigeni messicani è lanciata.

 

Michela Giovannini