Per chi come me è nato qualche decennio dopo la fine del secondo conflitto, l’espressione “guerra mondiale” ha un che di desueto. Le guerre mondiali si studiavano a scuola per passare temi ed interrogazioni. Era uno studio puramente intellettuale, fino a quando non si ascoltavano le storie dei nonni. L’apprendimento, attraverso la loro esperienza, si ancorava al mondo delle emozioni. Come mio nonno Berto, mandato sul fronte russo da cui a sentir lui era tornato subito, perché come orfano di guerra (la prima guerra mondiale) e figlio unico era esonerato dai combattimenti. Questa era l’unica cosa che diceva. Poi, chiacchierando con mio zio dopo il funerale, ho scoperto che il vecchio Berto non la raccontava proprio giusta: e che al fronte era rimasto per oltre un anno. E poi nonno Albino, che era nei pompieri: chiamato per andare a Roma ad aiutare durante i bombardamenti ma avendone già avuto esperienza e non volendo ripeterla, decise di versarsi dell’acido cloridrico sulla caviglia destra. Essere maldestri è un po’ una dote di famiglia, fatto sta che di acido gliene scappò un po’ troppo e si causò un’ustione di terzo grado.

Ecco, per me la guerra è questo: il silenzio di non volerla ricordare; la disperazione nel dover scegliere tra un futuro doloroso o molto doloroso. Nessun libro ti può insegnare queste cose.

Parlare di terza guerra mondiale è un qualcosa per cui siamo forse poco preparati: la guerra, per la maggior parte di noi occidentali, è un qualcosa di puramente intellettuale. Non l’abbiamo vissuta, né vista combattere. Certo, sappiamo che da qualche parte c’è. Ne sentiamo discutere dai media; Papa Francesco l’ha chiamata “terza guerra mondiale a pezzi”, ritornando poi sul tema fino ad affermare che per fermarla l’unica via è la pace mondiale a pezzi. Parliamo di un nuovo tipo di guerra, che coinvolge tanti paesi ma fa sembrare il tutto scollegato, come se ogni conflitto fosse un capitolo a sé. Ma è realmente così, o è necessario aggiornare la nostra idea di “guerra mondiale”? Come possiamo entrare in contatto con esperienze di vita, per capirci davvero qualcosa?

A questa domanda ha risposto IPSIA (Istituto Pace Sviluppo Innovazione ACLI); la scorsa settimana ha promosso a Trento il primo incontro di un ciclo “terza guerra mondiale a pezzi. Hanno chiesto a varie associazioni e persone che operano a livello locale ed internazionale di intervenire per parlare dei conflitti in atto nei Paesi in cui operano. La risposta – purtroppo, in un certo senso – è andata al di là delle aspettative. Ad aprire l’incontro Massimiliano Pilati (Presidente del Forum Trentino per la Pace ed i Diritti Umani) e Luca Oliver (Presidente delle ACLI Trentine), che hanno condiviso alcuni dati sul coinvolgimento italiano nei conflitti – in primis rispetto ai finanziamenti stanziati per le forze militari: 64 milioni di euro al giorno nel 2017, contro i 44 milioni di euro stanziati per i terremoti durante tutto il 2016. A questo aspetto si è unito il discorso relativo alle armi che l’Italia vende a tutti i belligeranti (d’altronde, pecunia non olet).

Dall’incontro è emerso un quadro di conflitti che hanno numerosi punti in comune in termini di interessi economici, ingerenza dall’esterno, violenza generalizzata ed indiscriminata.

L’estremismo islamico che vive la Somalia è il frutto di un vuoto politico che colpisce il paese da decenni. Qui la religione con il tempo è diventata l’unico aspetto a cui aggrapparsi: e quando l’Europa ha voltato le spalle al Paese, sono stati gli islamici estremi a prendere il sopravvento, istituendo la sharia. “Si applica la legge del taglione, quindi se rubi anche solo una gallina ti tagliano una mano. Non sapete quanti giovani ci sono oggi da noi senza mani” – ha detto Sareeda Cali. In Mali invece il conflitto è iniziato nel 2004: “prima si moriva “solo” di fame, malattie e povertà”, ricorda Massitan Kante. Il Paese è stato vittima dei Tuareg che si sono uniti all’Isis ed hanno iniziato ad invaderlo da nord a sud. Li hanno bloccati i francesi, sotto mandato dell’ONU. Nella Repubblica Democratica del Congo, dal 1996 ad oggi si contano circa 6 milioni di morti: tanto da poter parlare di genocidio, nel silenzio dei media. Oltre alla guerra e alla violenza diffusa ed indiscriminata (che nasconde profondi interessi economici, come il coltan) è la povertà generalizzata ad aggravare il quadro. “Al mondo circa un miliardo di persone vive senza acqua potabile; di queste, circa 65 milioni sono nel Congo. È una proporzione che fa paura”, afferma Mariano Prandi. A narrare la Siria Pietro Maffezzolli, attraverso la storia di una famiglia che è riuscita a scappare e rifugiarsi in Libano (dove ha subìto minacce di morte nei campi profughi) – per poi raggiungere l’Italia grazie ai corridori umanitari. “E spera, prima o poi, di poter tornare a casa”. Si passa al Kurdistan iracheno con Hussein Bazeghi, architetto rientrato da una missione nel paese per conto della Caritas. “Ci sono i migranti di serie A – quelli che riescono ad arrivare nei paesi ricchi; ed i migranti di serie B, che restano nei campi profughi. Quando io abitavo in Kurdistan, si viveva tutti insieme: musulmani, cristiani, ebrei – la religione non faceva differenza. Adesso siamo tutti divisi”. Il regista Razi Mohebi ha parlato di Afghanistan: un paese in guerra dal 1979, dove il conflitto è così normale da essere uno stile di vita. Anche la sua testimonianza ricorda come, “nel vuoto di pensiero e di cultura, sia il potere violento a prendere il sopravvento”. Si è poi toccata l’Ucraina: il paese è spaccato un due, con una parte che guarda alla Russia (ben lieta di “interferire” nella politica interna) e l’altra all’Europa. “A noi non piace la guerra, come credo a nessuno. Ma non possiamo stare a guardare, se dobbiamo difenderci lo facciamo”, ha affermato Angela Shevchuk. L’incontro si è poi chiuso parlando di Cina e Tibet, con Luciana Chini e Khando Tenzin. Secondo loro il Tibet starà meglio quando anche in Cina verranno rispettati i diritti umani: calcolando che ogni anno nel paese vengono giustiziate circa 4000 persone (per impiccagione) la strada da percorrere è ancora lunga. Il Tibet è l’unico ad aver messo in atto una resistenza pacifica: nonostante la situazione votano democraticamente per il proprio governo; mantengono le tradizioni; cercano il dialogo e la pace con i leader cinesi. “Si parla tanto di nonviolenza, noi tibetani da decenni portiamo avanti una resistenza nonviolenta. Ma non c’è più sordo di chi non vuol sentire – ed i media non ne parlano”, dice Khando Tenzin.

Novella Benedetti