Betlemme, 2003. Najwa viaggiava in auto con la sua famiglia quando all’improvviso dei soldati israeliani a bordo di una jeep, appena visibile in lontananza, iniziarono a far fuoco contro di loro. Fu l’inferno, con l’auto che veniva crivellata di colpi, mentre loro gridavano: “Fermi! Siamo civili!” Alla fine sopravvissero in tre: Najwa, ferita da una moltitudine di schegge, suo marito, con dieci proiettili nella schiena e la figlia maggiore Marianne, colpita al ginocchio. Quanto alla figlia minore, Christine, la trovarono morta nel sedile posteriore, in un lago di sangue. “Venne un militare a scusarsi, ci disse che stavano cercando tre terroristi di Hamas e che ci avevano scambiato per loro” racconta oggi Najwa, mentre la sua amica Tamara, seduta di fianco, la guarda e le tocca il braccio come per farle coraggio e darle il suo sostegno. Anche Tamara, infatti, ha perso un figlio, ucciso mentre prestava servizio in Libano nel 1987.

Siamo a Roma, alla Sapienza, nell’ambito del progetto “Semi di pace”, giunto ormai alla XIX edizione e promosso dalla rivista Confronti grazie ai contributi Otto per mille della Chiesa valdese. Con lo scopo di dare voce a israeliani e palestinesi impegnati nell’educazione alla pace e al dialogo interculturale e interreligioso, quest’anno il progetto ha infatti permesso a Najwa S. I. Saadeh, palestinese di Betlemme, e Shulamit Tamara Rabinowitz, israeliana di Tel Aviv, di venire in Italia e raccontare la loro esperienza all’interno del Parents Circle, un’organizzazione formata da famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso familiari diretti a causa delle violenze scaturite dall’Occupazione e da anni di conflitti e violenze.

“Siamo circa 600 famiglie, 300 israeliane e 300 palestinesi. Ci incontriamo a cadenza regolare, stiamo insieme, piangiamo insieme e raccontiamo le nostre storie, cercando di trovare strade diverse dall’odio e dalla vendetta, perché così non si può andare avanti” spiega Tamara, che continua a raccontare: “Sono nata a Londra e ho trascorso la mia infanzia in Sud Africa, in cui vigeva l’apartheid. Ero una sionista entusiasta perciò nel 1960 mi sono trasferita in Israele, che per me doveva essere la terra della libertà e della speranza. Sono stata un’ingenua e non c’è voluto molto per rendermi conto di essere passata da un apartheid a un altro”. Ma è dopo la morte del figlio e l’incontro con i palestinesi del Parents Circle che in lei nasce una nuova presa di coscienza politica, fondata sul riconoscimento del proprio dolore negli occhi dell’altro. Da allora non si è più fermata, partendo dall’educazione della propria famiglia e dei propri nipoti, fino agli incontri nelle scuole insieme alla sua amica Najwa.

“Purtroppo i ragazzini israeliani crescono con l’equazione: palestinese uguale terrorista e molti vedono per la prima volta un palestinese in carne ed ossa proprio durante i nostri incontri, che però oggi come oggi si fanno sempre più difficili” spiega, aggiungendo come già le scuole religiose siano per loro off limits. “Basti pensare che il termine Nakba, la ‘catastrofe’, in cui nel 1948 migliaia di palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro terre, nelle scuole israeliane è una parola tabù, così come è vietato parlare di occupazione e non si può studiare nemmeno il grande poeta e scrittore palestinese Mahmoud Darwish”.

Nei Territori palestinesi, invece, favorendo questo tipo di incontri si teme la “normalizzazione”, intesa come un processo in cui relazioni normali vengono riprodotte in un contesto segnato da circostanze anormali com’è quello dell’occupazione israeliana. E’ così che Tamara e Najwa parlano di due narrative, forse inconciliabili, che però andrebbero come minimo conosciute: “Se si conosce solo la propria ecco che nascono i muri, fisici e mentali”.

Certo, la realtà politica lascia presagire pochi spiragli: dai 700 chilometri di muro – con cui Israele ingloba illegalmente parti del territorio palestinese comprese sorgenti, colture e monumenti – ai check-point e i fili spinati ovunque, dagli arresti indiscriminati e abusi, alle violenze continue, fino alla recente “legalizzazione degli insediamenti illegali” da parte del parlamento israeliano che, come ha spiegato il giornalista di Confronti, Luigi Sandri, “allontanano sempre di più dall’orizzonte politico la soluzione dei due Stati”.

In un contesto del genere – a cui aggiungiamo anche l’elezione di Trump alla Casa Bianca a complicare le cose – l’esistenza di realtà come Parents Circle ha il sapore di un’utopia disperata, eppure indispensabile, soprattutto per loro stessi. “Io non dimentico, certo – ha commentato Najwa durante l’incontro alla Sapienza – ma nessuna vendetta può restituirmi mia figlia così come nessuna decisione o trattativa può prevedere l’eliminazione fisica dell’altra parte. Perciò dobbiamo trovare un altro modo”.

Un pensiero condiviso anche dalle altre due donne invitate in Italia dal progetto “Semi di pace”, e che hanno seguito un tour parallelo in diverse città italiane: una è Orna Akad, israeliana e rappresentante di Sindyanna of Galilee, azienda di donne ebree e arabe che, fondata nel 1996, promuove la cooperazione arabo-ebraica, sostiene il ritorno degli agricoltori arabi, offre posti di lavoro alle donne palestinesi e tiene corsi di artigianato tradizionale. L’altra è Shatha Bannoura, palestinese, rappresentante di Bethlehem Fair Trade Artisans, organizzazione che valorizza le risorse umane (femminili e non solo) e territoriali locali, favorendo il dialogo e la conoscenza reciproca.

E’ un caso che siano tutte donne? Le partecipanti al progetto hanno una loro idea: “Abbiamo un sacco di leader uomini e non ci hanno portato da nessuna parte” ha commentato tra le altre Orna Akad durane la conferenza stampa di presentazione tenutasi alla Camera, e ha aggiunto: “Guardiamoci in faccia, siamo la maggioranza e sappiamo che insieme possiamo esercitare un impatto. E forse fare molto meglio, nella strada verso la pace”.

Anna Toro