Nel titolo della riforma costituzionale è indicato “il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”. Questo è un argomento molto utilizzato dai sostenitori della necessità di una revisione della Costituzione, ma è evidente che ci possono essere modi diversi per contenere i costi della politica e non tutte le proposte sono coerenti.

Anzitutto bisogna premettere che la nuova legge elettorale “italicum” rischia di aumentare i costi elettorali. Infatti per l’elezione dei deputati è prevista la necessità di ricorrere ad un secondo turno nel caso (molto probabile) in cui nessun partito superi la soglia del 40% al primo turno. L’introduzione del doppio turno – rispetto alla legge precedente – è sicuramente un costo aggiuntivo, che i promotori della legge “Italicum” hanno tralasciato di segnalare agli elettori.

Anche con l’approvazione della riforma costituzionale ci sarebbero alcuni costi aggiuntivi, nonostante quanto è stato scritto nel titolo della legge, poiché “al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali” (art. 71). È chiaro che lo svolgimento di referendum e consultazioni popolari avrà certamente un costo.

La revisione costituzionale prevede la soppressione delle Province. Al loro posto, però, ci saranno le Città Metropolitane e la possibile creazione di Enti di Area Vasta. Si dà per scontato che in questo modo si avrà una diminuzione dei costi, ma la Ragioneria dello Stato in una nota ha scritto che i risparmi di spesa “non sono allo stato quantificabili”.

Certamente una diminuzione dei costi ci sarebbe per il Senato, poiché i senatori non riceveranno più uno stipendio, svolgendo già le funzioni di sindaci o di consiglieri regionali, per le quali ricevono già un’indennità. Qui però si nota subito un’incongruenza: mentre i senatori dovranno svolgere questa attività gratuitamente, i deputati manterranno lo stipendio già previsto. Questa disparità di trattamento sembra … incostituzionale!

Per ottenere un risultato economico analogo, ma più equilibrato, dato che la Costituzione vigente stabilisce che “i membri del Parlamento ricevono un’indennità stabilita dalla legge” (art. 69), sarebbe bastato modificare questa legge, diminuendo lo stipendio a tutti gli eletti. Per altro, questa possibilità è sempre disponibile con procedimento legislativo ordinario, senza ricorrere a revisioni della Costituzione e a referendum costituzionali.

A prescindere dai costi, sul numero dei parlamentari sarebbe opportuna una valutazione seria, fuori dalla demagogia. Anzitutto bisogna rilevare che dal 1948 ad oggi la popolazione italiana è aumentata del 33%, mentre il numero dei deputati è rimasto invariato. Di conseguenza, se un deputato nel 1948 rappresentava circa 73 mila elettori, oggi ne rappresenta oltre 95 mila. Attualmente il numero di parlamentari (deputati + senatori) in Italia rispetto alla popolazione è il sesto più basso tra i Paesi della Unione Europea. Se venisse approvata la riforma della Costituzione saliremmo al secondo posto, subito dopo la Germania, che però ha un numero quasi doppio di consiglieri regionali rispetto a quelli italiani. Sommando gli attuali parlamentari e consiglieri regionali l’Italia e la Germania hanno lo stesso numero di politici in rapporto alla popolazione: uno ogni 33mila abitanti. Se volessimo introdurre in Italia lo stesso rapporto tra parlamentari e abitanti che c’è in Svezia o in Irlanda, dovremmo raddoppiare o addirittura triplicare il numero degli eletti.

Qualora si giudicasse comunque eccessivo il numero dei rappresentanti del popolo, sarebbe stato più logico diminuire i deputati (che sono 630) e non i senatori (che sono 315). Dato che con la riforma i senatori non riceveranno più l’indennità economica, a maggior ragione si sarebbe potuto mantenerne invariato il numero. È il caso di ricordare che un parlamentare si trova a decidere su tutte le materie possibili e immaginabili, dalle quote latte al commercio degli armamenti, dalla banda larga ai pannelli solari, dalle unioni civili alle sostanze stupefacenti, dalle questioni amministrative ai trattati europei, dal sistema tributario alla revisione costituzionale, ecc. Pare alquanto improbabile che un numero limitato di persone possano essere competenti in ogni materia.

Talvolta si obietta dicendo che i senatori americani sono soltanto 100, come sarebbero quelli italiani con la riforma, pur avendo una popolazione di molto inferiore a quella americana. Occorre però notare che ogni senatore americano ha la facoltà di nominare fino a 32 assistenti ed ha a disposizione per le spese del suo ufficio una somma pari al corrispondente contributo di supporto di ben 48 senatori italiani.

Tutto questo per dire che i sistemi democratici hanno sempre un costo: una dittatura o una oligarchia costa sicuramente meno, perché non c’è nemmeno la spesa per le elezioni! Si tratta di capire qual è il livello di rappresentanza e di costi economici che un Paese vuole sostenere, possibilmente facendo confronti seri con gli altri Paesi e considerando che un’elevata qualità della legislazione potrebbe portare risparmi più significativi dei tagli al numero dei parlamentari.

Il 4 ottobre scorso nell’editoriale del Financial Times Tony Barber ha scritto: “Il Parlamento italiano ha approvato anno dopo anno un numero maggiore di leggi di quelle promulgate in Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti. Ciò di cui l’Italia ha bisogno non è più leggi e più rapidamente approvate, ma meno e migliori leggi. Esse devono essere scritte con cura e applicate concretamente”. Sono considerazioni di buon senso, che dobbiamo leggere sui giornali esteri e che – purtroppo – raramente trovano spazio nel dibattito politico del nostro Paese.