L’Italia non è una repubblica federale. Non è composta da stati o territori che si sono federati tra loro (come gli Usa o la Germania). La differenza si vede in modo chiaro nella suddivisione della spesa. In Canada le province spendono il 70% e lo stato il 30%. Negli Usa il 50% del bilancio è di competenza dei diversi stati e il restante 50% viene speso dalla federazione. In Italia (dati relativi al 2015) lo stato è responsabile del 68% della spesa, mentre gli enti territoriali (regioni, province, comuni) hanno avuto a disposizione il 32% del budget nazionale. In realtà anche il 32% della spesa è soltanto in minima parte formato da tributi autonomi. In Italia gli enti territoriali sono erogatori di servizi (pensiamo anzitutto alla sanità che è di competenza regionale) finanziati dallo stato. Anche le tasse locali in realtà sono stabilite a livello centrale. Gli enti locali dispongono soltanto di un ristretto margine di manovra tra un’aliquota più bassa e una più alta. È evidente che in Italia il federalismo è di fatto una parola vuota.

Con la riforma nel 2001 del titolo V della Costituzione, si era avviata la possibilità di aprire un varco ad una impostazione federale, ma che non ha trovato riscontri concreti nella legge applicativa (n. 42 del 2009), per altro “congelata” dal Governo Monti a causa della crisi. Dato che la prospettiva federalista era stata aperta dalla coalizione del centrosinistra nel 2001, ampliando le competenze delle Regioni, con il progetto di revisione approvato nel 2016 dal Parlamento con una maggioranza guidata dal principale partito del centrosinistra, ci si sarebbe aspettati un rilancio dell’idea federalista. Invece, il progetto di revisione costituzionale voluto dal Governo Renzi, inserisce una retromarcia persino imbarazzante. Tutte le materie di competenza concorrenti (cioè relative alla collaborazione tra stato e regioni), vengono assunte esclusivamente dallo stato. Non solo, anche nelle materie di esclusiva competenza regionale il Governo può fare valere una clausola di supremazia, avocandone la titolarità per un imprecisato “interesse nazionale”. A ciò si aggiunge la scomparsa delle Province dall’orizzonte costituzionale.

Si potrebbe obiettare che a compensazione di questa drastica diminuzione del potere delle regioni e dell’eliminazione delle province, viene radicalmente cambiata la composizione del Senato, nel quale verranno nominati consiglieri regionali e sindaci. Peccato che i poteri legislativi del Senato vengano fortemente compressi e soprattutto che proprio il Senato non ha competenza sulla leggi tributarie, in particolare su quella di coordinamento tra i sistemi tributari statali e quelli derivati (cioè delegati a regioni e enti locali). Se il voto del referendum del prossimo autunno confermerà la revisione costituzionale, i tributi regionali e comunali dipenderanno integralmente dallo stato e non avranno alcun riconoscimento costituzionale. In altre parole, se dal 2001 ad oggi il federalismo fiscale (e non solo) non è mai stato avviato nei fatti, con l’approvazione della riforma della Costituzione un sistema federale viene escluso per principio.

Questo blocco e questa inversione di tendenza del percorso federalista da alcuni viene attribuito a motivazioni economiche, in particolare al problema del debito pubblico italiano, che va tenuto sotto controllo (vedi nel 2012 la modifica dell’art. 81 della Costituzione), poiché l’Italia deve rispettare i patti stabiliti a livello europeo sul rapporto tra deficit, debito e PIL. In realtà, nel Supplemento al Bollettino Statico della Banca d’Italia su “Finanza pubblica, fabbisogno e debito” i dati relativi al 2015 evidenziano una situazione alquanto diversa. Il debito delle amministrazioni locali da 98 miliardi è sceso a 92 miliardi di euro, mentre quello globale delle amministrazioni pubbliche da 2.090 miliardi è salito a 2.136 miliardi di euro. In altre parole il debito pubblico soltanto per la ventesima parte è dovuto alle amministrazioni decentrate, che nel corso del 2015 hanno mostrato di riuscire a diminuirlo addirittura del 6%. Al contrario è lo stato centrale che nel 2015 ha aggiunto ad un debito già elevatissimo altri 52 miliardi di euro, che scendono a 46 miliardi grazie al risparmio di regioni, province e comuni. Da notare l’ottimo risultato delle regioni e delle province autonome che in un anno hanno ridotto il debito da 34 a 31 miliardi, con una riduzione quasi del 10%.

Anche alla luce di queste cifre viene da chiedersi se – come prevede la riforma della Costituzione – sia davvero il caso di dare più potere allo stato centrale, di fatto soffocando il federalismo nella culla. E non va dimenticato che la centralizzazione del potere è in tendenziale contrasto con il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali, indicati chiaramente nell’art. 5, che la Costituzione colloca tra i principi fondamentali.