Il « made in Europe » è spesso considerato una garanzia di qualità e di buone condizioni di lavoro. Numerose inchieste della Dichiarazione di Berna (DB) e di suoi partner internazionali hanno però rivelato un lato nascosto dell’industria calzaturiera, dalle concerie toscane fino alle fabbriche dell’Est Europa. Scarpe « italiane » o « tedesche » ma in realtà prodotte in fabbriche in Slovacchia o in Polonia, dove decine di migliaia di operaie lavorano in condizioni scandalose e per salari spesso inferiori a quelli retribuiti in Cina. Dall’esame di queste aziende abbiamo concluso che vi è ancora molta strada da fare in termini di responsabilità e di trasparenza, anche per le marche e per i rivenditori svizzeri.

Nel 2014 nel mondo sono stati prodotti 24 miliardi di paia di scarpe. Benché la maggior parte provenga dall’Asia; il 23 % delle scarpe di pelle, più costose, viene prodotto in paesi europei, fra i quali spicca l’Italia. È inoltre in Italia che avviene il processo di conciatura del 60 % di tutto il cuoio prodotto nell’Unione Europea. Questo compito gravoso viene spesso affidato ai lavoratori immigrati, un fenomeno ben visibile nelle concerie intorno a Santa Croce, in Toscana. A tough story of leather (PDF, 1.7 MB) è un’indagine che descrive la realtà di queste migliaia di lavoratori che quotidianamente maneggiano carichi pesanti e sostanze chimiche senza protezioni adeguate. Diversi operai hanno sviluppato allergie in seguito al contatto con sostanze tossiche, altri addirittura tumori; gli incidenti sono frequenti.

Non di rado le fasi più onerose della produzione vengono esternalizzate in paesi dell’Est Europa, consentendo così alle marche italiane e tedesche di trarre profitto dalla manodopera a basso costo e dai tempi di produzione più brevi. Nel rapporto Labour on a Shoestring (PDF, 3.4 MB), la DB entra nelle fabbriche di sei paesi dell’Est Europa per raccontarne le difficili condizioni di lavoro. In Albania, Macedonia e Romania il salario minimo si situa fra i 140 e i 156 euro mensili, cifre inferiori a quelle previste in Cina. Per poter mantenere le proprie famiglie le operaie dovrebbero guadagnare da quattro a cinque volte tanto. Venendo pagate in base al numero di articoli prodotti, spesso le lavoratrici preferiscono poi rinunciare ai guanti o ad altro materiale di protezione contro le colle e le sostanze chimiche che devono maneggiare, così da poter lavorare più rapidamente. Similmente all’industria tessile, il settore calzaturiero è affetto da problemi strutturali che non si fermano di fronte alle frontiere europee.

La nostra indagine (PDF, 26 MB) mostra anche che marche e rivenditori non si interessano abbastanza alle condizioni di lavoro nelle fabbriche in cui le scarpe vengono prodotte. Ci siamo rivolti a 28 aziende, di cui 8 svizzere. Bally, Navyboot, Pasito-Fricker, Rieker e Vögele Shoes non hanno ancora fornito alcun riscontro. Bata, Manor e Migros hanno invece risposto, ma non assicurano che le operaie degli stabilimenti dai quali si riforniscono percepiscano un salario dignitoso. La DB chiede alle marche e ai rivenditori di assumersi le proprie responsabilità e di mettere in atto le misure necessarie affinché il rispetto dei diritti umani sia garantito sulla totalità della loro catena di produzione. Soprattutto, che si impegnino perché agli operai ed alle operaie venga versato un salario dignitoso.
Per maggiori informazioni qui (in francese) oppure :

Géraldine Viret, Dichiarazione di Berna, 021 620 03 05, viret@ladb.ch

Fonte: https://www.db-si.ch/media/comunicato-stampa/scarpe_made_in_europe_salari_da_fame/