Il 28 Giugno, il giorno di S. Vito, i giornali italiani riportano le notizie dell’inizio della fine della Jugoslavia Socialista. Il 25 Giugno le prime dichiarazioni indipendentiste. Il 26 e 27 Giugno i primi combattimenti in Slovenia. È l’inizio della guerra delle guerre, la guerra nella (ormai ex) Jugoslavia, l’inizio di quella lunga teoria di guerre e conflitti sanguinosi che avrebbe, per i successivi quattro anni e mezzo, lacerati i Balcani, insanguinata l’Europa, decretata la fine della “Seconda Jugoslavia”.

Il giorno di S. Vito è il memoriale del principe Lazar e dei serbi caduti per difendere i territori slavi durante l’epopea della Battaglia del Kosovo contro l’Impero Ottomano. È il giorno della Battaglia di Kosovo Polje (28 Giugno 1389), ma anche la festa di S. Vito, legata, peraltro, ad una incredibile sequela di eventi memoriali nella storia serba. La vittoria ottomana del 1389 aprì la porta alla penetrazione ottomana nell’Europa Continentale e il 28 Giugno, per il suo impatto e per il suo significato, è assurto a “luogo della memoria”, universale, dei caduti di tutte le guerre. Poco più di sei secoli dopo, una nuova battaglia si combatte nei Balcani, con nuovi caduti e nuove memorie.

«Su Lubiana, silenziosa ed impaurita, un boato ed un bagliore». Inizia così la cronaca di Guido Rampoldi, su “La Stampa” del 28 Giugno 1991, dell’inizio della “breve guerra”, la guerra in Slovenia o “Guerra dei Dieci Giorni”, che, nel breve volgere di due settimane, avrebbe inaugurata la dolorosa “successione incatenata” delle guerre di dissoluzione della (ormai ex) Jugoslavia. «Tutti gli sloveni che hanno cariche federali le abbandonano e il vice del premier Ante Marković, Pregl, lasciando Belgrado, racconta: l’Armata ha deciso da sola, senza informare il vertice jugoslavo».

Una testimonianza, peraltro, contraddetta in sostanza dall’articolo a fianco, dove, un paio di colonne a destra, la cronaca di Ingrid Badurina riferisce che l’Armata «ha ricevuto appoggio incondizionato dalla Presidenza Federale riunitasi ieri a Belgrado. In realtà, quest’organo monco, senza presidente né vicepresidente, non ha più alcuna legittimità per prendere decisioni. Assenti lo sloveno Drnovsek, il croato Mesić, il macedone Tupurkovski», una chiara applicazione del “disimpegno” o “boicottaggio”, da parte delle autorità secessioniste, delle istituzioni federali della Jugoslavia.

Dalle quali non erano mancati tentativi, puntualmente respinti, di mediazione e di salvaguardia della “fratellanza e unità”, ormai ridotte a simulacro nel fuoco della crisi, della Jugoslavia: è ancora Badurina a riferire che «il governo propone una moratoria di tre mesi su tutte le decisioni prese dalle repubbliche che riguardano l’indipendenza, la dissociazione dalla Jugoslavia, le autonomie locali, il cambiamento delle frontiere». Il presidente sloveno, Kucan, «ha dichiarato… che la Slovenia interromperà i contatti con Belgrado» (“La Stampa”, Venerdì 28 Giugno 1991, p. 5).

Una separazione incostituzionale, a norma di costituzione jugoslava del 1974, cui gli indipendentisti pure si sono, a più riprese, a torto o a ragione, richiamati, la quale, se da un lato all’art. 1 fonda la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia come stato federale e comunità statale di «popoli volontariamente uniti e delle loro repubbliche socialiste nonché delle loro province socialiste autonome del Kosovo e della Vojvodina», dall’altro all’art. 5 richiama il principio per cui «i confini della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia non possono essere mutati senza il consenso di tutte le Repubbliche e Provincie Autonome» e «i confini tra le Repubbliche… soltanto in base al loro accordo, e quando si tratta dei confini di una Provincia Autonoma, anche in base alla sua adesione».

Nella parte terza dedicata ai rapporti interni alla Federazione, il dettato costituzionale è ancora più chiaro. Secondo l’art. 244, che basa sul principio di “fratellanza e unità” i rapporti repubblicani, «nella Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, i popoli e i gruppi nazionali, i lavoratori e i cittadini realizzano ed assicurano la sovranità, l’eguaglianza, la libertà nazionale, l’indipendenza, l’integrità territoriale, la sicurezza, l’autodifesa sociale, la difesa del Paese, la posizione internazionale e le relazioni del Paese con gli altri stati e le organizzazioni internazionali, …i fondamenti delle libertà democratiche e dei diritti dell’uomo e del cittadino… e l’unità del mercato jugoslavo, concordando il comune sviluppo economico e sociale e gli altri loro comuni interessi». Mentre l’art. 251 sancisce «anticostituzionale qualsiasi atto e qualsiasi azione che incrini l’unità del mercato jugoslavo».

Lo stesso giorno, 28 Giugno 1991, “l’Unità” titola: «In Jugoslavia è guerra civile», Giuseppe Muslin pone l’accento sul rischio di “effetto domino” che sarebbe passato alla storia, paradigmaticamente, come “balcanizzazione”: «La minoranza dei Serbi nelle due repubbliche [la Crozia e la Bosnia] ha deciso di formare una repubblica autonoma, unendo la (Hrvatska) Krajina alla Bosanska Krajina. Le due regioni contermini adesso rischiano di appiccare il fuoco anche alla Bosnia Erzegovina, oltre che alla Croazia. … Resta il fatto che anche per la Bosnia si apre una fase di destabilizzazione che potrebbe accelerare la disgregazione stessa della Repubblica». Sin dalla copertina del “giornale fondato da Antonio Gramsci”, Renzo Foa tratta «di quei nodi di cui si è parlato molto in questi giorni e che hanno la loro origine, soprattutto, in uno squilibrio di natura economica, che ha avuto la meglio su tutti gli altri fattori politici, nel momento in cui è tramontato il collante dell’ideologia».

E sembra quasi parlare della deludente attualità della comunità europea quando ammonisce che «se non siamo capaci, con la forza che ci deriva dalla storia della nostra democrazia, di “intervenire” alle porte di casa nostra per cercare di prevenire l’esplosione di crisi che – in ogni modo – si abbatteranno anche su di noi, credo che sia rimesso in discussione il ruolo internazionale del nostro Paese. Finora l’Italia non è stata capace di fare niente. Né con le sue forze, né trascinando l’Europa, intesa come Comunità, ad una iniziativa in grado di sciogliere i nodi che in tutti questi anni si sono accumulati nella Federazione Jugoslava» (“L’Unità”, Venerdì 28 Giugno 1991, p. 1 e p. 3).

Il giorno precedente, sulle prerogative costituzionali e le competenze federali, si era soffermato anche Dušan Pilić, dalle colonne di “Repubblica”, confermando che «I confini – dice Marković – la dogana e tutti quegli elementi economici che le repubbliche avevano approvato e accettato sono e resteranno di competenza della federazione finché essa avrà tali competenze: e cioè finché non si arriverà all’accordo sul futuro della Jugoslavia. Zagabria e Lubiana evidentemente correvano troppo veloci e con la loro separazione potevano provocare, in altre parti del Paese, serie complicazioni.

«Il governo temeva che la Bosnia, la Croazia e la Serbia si trasformassero in campi di sanguinose battaglie: ha così scelto la strada dell’intervento… Si attendeva… la reazione serba alla decisione della Croazia di trasformare i confini amministrativi in confini di Stato. I dirigenti serbi, a eccezione di alcuni deputati dell’estrema destra, hanno accolto con tranquillità le decisioni del governo federale: è un affare che riguarda la federazione, ha dichiarato un deputato del partito al potere».

Su “Repubblica” è riportata anche l’ambigua posizione delle cancellerie occidentali, in primo luogo degli Stati Uniti, che da un lato intervengono perché non si crei un focolare di instabilità fuori controllo, dall’altro spingono per il riconoscimento dei diritti nazionali di Slovenia e Croazia e premono per un cambiamento radicale nella configurazione e nell’assetto della Jugoslavia Socialista se è vero che «prendendo atto che i croati non considerano la loro proclamazione d’indipendenza una secessione e che gli sloveni sono disposti a negoziare, i portavoce hanno espresso il parere che ci sia spazio per un compromesso. E hanno ribadito che gli aiuti economici occidentali andranno solo alla Jugoslavia unita perché l’unione è il presupposto della democratizzazione del Paese e del suo passaggio al “libero mercato”. […] Stando alle indiscrezioni della Casa Bianca, l’obiettivo americano è una modifica della Federazione Jugoslava che conceda maggiore autonomia alle sei Repubbliche. George Bush chiederebbe alla Germania e all’Italia, i Paesi con le massime leve economiche su Belgrado, di premere subito in questo senso» (“Repubblica”, 27 Giugno 1991).

La fine della Jugoslavia era già cominciata e, leggendo con sguardo retrospettivo le cronache dell’epoca, appaiono tra le polveri e le nebbie di eventi fitti e drammatici, i veri motivi della contesa: la precipitazione della crisi economica e della conseguente instabilità politica; l’ascesa al potere di élite nazionaliste pronte a soffiare sulla identificazione etnica per legittimare il proprio potere all’indomani dell’introduzione del multipartitismo; la balcanizzazione e, in particolare, la disgregazione della Jugoslavia come opzione (non esclusiva ma non secondaria) delle cancellerie occidentali, per smantellare il socialismo della fratellanza e dell’unità, per insediare una spina nel fianco del processo costituente europeo, per creare una testa di ponte verso Oriente. Siamo, più che mai, alla vigilia del presente. E oggi, come e diversamente da ieri, siamo chiamati a rispondere: con una nuova solidarietà nella «jugosfera», una rinnovata cooperazione economica e politica, nuove opportunità da offrire alle prospettive della convivenza e alla scelta della “pace con giustizia”.