Molto più che uno strumento di comunicazione, la CNV (Comunicazione Nonviolenta) è un vero e proprio modo di vivere, di pensare e di agire. Ci aiuta a diventare consapevoli che ogni giudizio è l’espressione tragica di un bisogno. Riconosciamo e contattiamo i nostri sentimenti e bisogni così come quelli di chi ci è vicino, esprimendo e ricevendo quello che è vivo in noi. Impariamo a distinguere tra osservazione ed interpretazione, tra sentimenti e pensieri, tra bisogni e strategie.

Tutta la profondità, l’ampiezza, la forza rivoluzionaria di questo processo di comunicazione provengono da 40 anni di ricerca appassionata ed infaticabile del suo ideatore: Marshall B. Rosenberg (1936-2015), ex direttore dei Servizi Educativi del CNVC (The Center for Nonviolent Communication).

A spiegare in cosa consiste la comunicazione non violenta è Petra Quast, formatrice certificata di Comunicazione Nonviolenta del Center for Nonviolent Communication, Operatore Olistico  e Counselor S.I.A.F. Fa parte dello staff del Centro Esserci di Reggio Emilia che da oltre 20 anni è un punto di riferimento per la Comunicazione Nonviolenta in Italia. Attualmente tiene seminari in Comunicazione Nonviolenta / linguaggio giraffa in tutta Italia.

Che cos’è esattamente la Comunicazione Nonviolenta e a cosa serve?

Non è facile dare una definizione perché non si tratta solo di uno strumento, un modello o un linguaggio. E’ una visione, una filosofia finalizzata a vivere più in contatto con noi stessi e con gli altri e con la nostra comune natura empatica e per dare e ricevere col cuore. La tecnica della CNV, sviluppata da Marshall Rosenberg, consiste in quattro passaggi apparentemente facili. Ci risultano difficili perché non siamo stati educati nella direzione di una comunicazione collegata alla vita. Allo stesso tempo è qualcosa che ci appartiene. Da piccoli, infatti, tutti “parlavamo” in maniera naturale questo tipo di linguaggio: facevamo capire molto chiaramente di cosa avevamo bisogno e lo facevamo in un modo che stimolava gli altri a prendersi cura volentieri di noi. L’obiettivo della CNV è perciò di ricordarci quello che una volta sapevamo già, attraverso l’uso delle parole e di un modo di pensare diverso. Perché I modi che abbiamo acquisito nella nostra cultura ci scollegano da questa nostra natura empatica. La CNV ci invita a concentrare la nostra attenzione su aree specifiche di informazioni per poterci così ricollegare sia a noi stessi che all’altro e creare una connessione reciproca che permette di dare e ricevere col cuore.

Perché comunicare è così difficile?

Risulta difficile perché le strategie di comunicazione che abbiamo imparato non aiutano la connessione e non sono al servizio dei nostri bisogni e valori. Quando dentro di noi un bisogno non è soddisfatto, abbiamo imparato a trasformarlo in etichetta, giudizio o analisi sull’altro e questo rende difficile intenderci reciprocamente.

E’ necessario che entrambi gli interlocutori conoscano questo linguaggio CNV? E’ inoltre necessario che si conoscano, si vogliano bene e abbiano un obiettivo comune?

Secondo la mia esperienza basta che un solo interlocutore conosca lo strumento e abbia ben chiaro l’obiettivo di voler essere in connessione con il modo in cui la vita si manifesta dentro se stesso e dentro l’altro. Questa intenzione con la quale uso il linguaggio CNV è molto importante. Se ho allenato la capacità di essere in connessione con me stessa e sono interessata all’ascolto dell’altro, posso sentire quello che mi vuole dire al di là dei giudizi. Allenandoci a non sentire solo parole, che possono essere giudizi, etichette e interpretazioni, possiamo tentare di connetterci alla vita che l’altro ci porta. Siamo consapevoli che l’altro fa e dice la cosa migliore che sa fare per prendersi cura di un suo bisogno.

Puoi farci un esempio concreto?

Una persona mi dice: “Sono stufa. Non mi chiami mai, devo sempre chiamarti io”. Questa persona non conosce la Comunicazione Nonviolenta. Io sono interessata a una connessione e sposto la mia attenzione dall’interpretazione all’osservazione. Poi verifico chiedendo: “Ti riferisci al fatto che gli ultimi due mesi mi hai chiamato due volte mentre non hai ricevuto chiamate da parte mia”? Chiarisco molto bene l’osservazione che potrebbe essere lo stimolo, poi mi sposto sui sentimenti che potrebbe provare: “Rispetto a questo ti senti forse frustrata e dispiaciuta…? Verifico in forma di domanda perché non possiamo mai sapere come sta un’altra persona, possiamo sapere solo come stiamo noi. Dunque verifico i bisogni: “Perché hai bisogno di fiducia nelle mie intenzioni rispetto alla nostra amicizia”? L’obiettivo non è indovinare la cosa giusta, l’obiettivo è la connessione. Aspetto come reagisce l’altra persona. Magari mi dice: “Sì, tu non mi chiami e io non so cosa pensare”. A quel punto sono in contatto con il suo bisogno. Fiducia nell’interesse è un bisogno che ho anch’io. Il primo passaggio è l’osservazione. Insieme al sentimento e al bisogno mi permettono di connettermi a come sta l’altra persona, a cos’è vivo nell’altro. L’ultimo passaggio è la richiesta. Verifico: “Vorresti che ti dicessi come mai non ti ho chiamato? Esplicito una richiesta che sento potrebbe essere quella che l’altro vorrebbe farmi. Una possibile risposta potrebbe essere: “No. Voglio sapere se sei ancora interessato alla nostra relazione”. La nostra attenzione, la mia insieme a quella dell’altro, è pienamente sulla connessione tra di noi. Se una persona mi dice che non la chiamo mai e che è sempre lei a chiamarmi, potrei sentire molto facilmente una critica nelle sue parole. Potrei essere portata a crederci, a giustificarmi, a scusarmi o a contrattaccare. A quel punto non sarebbe possibile creare una connessione da cuore a cuore. Con l’allenamento all’ascolto non è necessario che l’altro conosca il linguaggio CNV. Sono io che ho la consapevolezza che attraverso l’attenzione su osservazione, sentimento, bisogno e richiesta posso contribuire ad attivare un energia che circolando ci metterà in connessione e ci permetterà di trovare una strategia che piacerà ad entrambi.

Se una delle due parti fosse, per ipotesi, in malafede, che cosa succederebbe?

Se io ho il pensiero che l’altro sia in malafede, questo mio pensiero indica il mio bisogno di fiducia non nutrito. Davanti a qualcosa che l’altro ha detto o fatto, io non sono soddisfatto. Quando diciamo che l’altro è in malafede, in realtà parliamo della nostra reazione rispetto a qualcosa che gli abbiamo visto fare o sentito dire.

Se una delle due persone avesse un fine diverso?

Davanti a qualsiasi messaggio possiamo scegliere come prenderlo. Anche se una persona mi dice: “Basta. Non voglio più avere a che fare con te”, posso scegliere di ascoltarlo come l’espressione di un bisogno non soddisfatto. Tutto dipende dalla nostra scelta. Usando giudizi, noi lasciamo sull’altro qualcosa che ci riguarda e di conseguenza è difficile riprenderci il nostro potere e anche fare richieste che stimolano l’altro a voler volentieri contribuire alla nostra vita.

E’ molto difficile però essere sempre a contatto con i nostri veri sentimenti e bisogni. Come è possibile riuscire ad essere sempre connessi?

Apparentemente è facile ma è molto difficile perché non siamo affatto allenati. Ci sono molte sfumature per esprimere come ci sentiamo ma non ne sappiamo esprimere più di due o tre: sto bene, male o normale. Nei nostri seminari iniziamo sempre da noi stessi, da come ci sentiamo noi. Forniamo, a questo proposito, un elenco di parole. Sono delle proposte. E’ utile in alcuni casi, scorrere quell’elenco e trovare una parola che risuona e che esprime come mi sento. La parola ci aiuta ad entrare in contatto con come ci sentiamo e la stessa cosa vale per i bisogni. Rispetto ai sentimenti il nostro modo abituale di parlare e pensare ci permette di dire per esempio “mi sento sfruttata”. Questo non è un sentimento, è un giudizio che ho nei confronti dell’altro. Se dico che mi sento sfruttata sto dicendo che penso che l’altro mi sfrutti e nella comunicazione con l’altro, qualsiasi parola che suoni come una critica renderà molto difficile la connessione perché stimola nell’altro l’autodifesa o il contrattacco. Se ci viene un pensiero di questo tipo, chiediamoci come ci sentiamo quando pensiamo che l’altro ci sfrutti. In questo modo entreremo in connessione col nostro sentimento che ci rende chiaro ciò che avviene in noi, lo colleghiamo col nostro bisogno che è la causa del sentimento. La causa dei nostri sentimenti sono i nostri bisogni. Marshall Rosenberg fa riferimento a bisogni umani universali, indipendentemente da sesso, etnia, età o origine. Si tratta di bisogni come cibo, acqua e riposo insieme a bisogni come ascolto, collaborazione, fiducia, ecc. E’ bene distinguere tra i bisogni e le strategie che usiamo per soddisfarli. Il bisogno di cibo, ad esempio, è un bisogno che abbiamo tutti ma le strategie per soddisfarlo sono diverse nel mondo: chi mangia carne, chi no, chi mangia insetti, ecc. Questo vale per ogni bisogno. Il bisogno è condiviso con tutti gli esseri umani e abbiamo tante strategie diverse a disposizione per prendercene cura.

Come si fa a distinguere tra osservazione e interpretazione?

Siamo abituati a mescolare osservazione ed interpretazione senza esserne consapevoli e all’inizio può essere una sfida di rendercene conto. Una volta compresa la differenza, l’interpretazione ci può aiutare a individuare sia l’osservazione che i nostri sentimenti e bisogni. Vilma Costetti, la mia insegnante e fondatrice del Centro Esserci di Reggio Emilia, diceva che il giudizio è come uno scrigno che possiamo aprire. Tendiamo a considerare la nostra visione come verità mentre si tratta solo di una nostra valutazione. L’interpretazione nel esempio di prima poteva essere: “non sei più interessata alla nostra amicizia “, mentre l’osservazione era “ti ho chiamato tre volte negli ultimi due mesi e non ho ricevuto chiamate da parte tua”. Vedete la differenza? L’osservazione è quello che una telecamera può registrare e riguarda tutto ciò che possiamo percepire con i sensi. L’obiettivo è la connessione con me e con l’altro e mettendo in chiaro la mia osservazione permette di chiarire di cosa sto parlando.

Che cos’è esattamente il linguaggio giraffa e il linguaggio sciacallo?

Marshall Rosenberg usava delle marionette per rendere chiaro in un modo divertente la differenza tra linguaggio abituale e linguaggio naturale. Lo sciacallo rappresenta un modo di comunicare scollegato dalla vita, mentre la giraffa comunica con l’intenzione di connettersi a se e all’altro. Rosenberg diceva anche che ogni sciacallo è una giraffa con problemi di comunicazione. Ci tengo a sottolineare che non si tratta di definire cosa è giusto o sbagliato, la CNV ci stimola ad uscire da questo modo di pensare e ci spinge a chiarire i nostri bisogni che non sono mai in contrapposizione. Ha scelto la giraffa perché è l’animale terrestre con il cuore più grande e ha il collo lungo, quindi ha una visione più ampia. Quando usiamo la CNV, anche la nostra visione è più ampia. L’obiettivo non è far fare all’altro quello che voglio io, l’obiettivo è entrare in una connessione reciproca da cuore a cuore.

Non stiamo dando per scontato, però, che gli esseri umani siano tutti buoni, con ottime intenzioni e con bisogni “buoni”? Se non fosse sempre così?

Come diceva Marshall Rosenberg, anche io credo che tutti gli esseri umani facciano quello che sanno fare per prendersi cura dei loro bisogni. Alla base della CNV c’è la visione dell’essere umano come tendente alla vita. L’essere umano in ogni momento fa la cosa migliore che sa fare. Questa visione è diversa da quella molto diffusa, che considera l’essere umano un po’ difettoso e pensa che a volte debba soffrire per imparare ad essere migliore. In questa visione, quello che è giusto o sbagliato, lo sanno le autorità.

Supponiamo il caso di due etnie che si facciano la guerra e che una di queste voglia tutto per sé, che voglia vincere, che non voglia ascoltare.

Le parole che stai usando indicano che probabilmente i bisogni di ascolto e di condivisione non sono soddisfatti. La nostra stessa idea, la nostra stessa immagine di “nemico” ci impedisce di entrare in contatto con l’altro. Non è facile comprendere questo perché siamo abituati a pensare in termini di giudizio. Rosenberg chiarisce molto bene in Comunicazione e potere che prima di poter entrare in connessione con l’altro è bene tradurre la nostra immagine di “nemico” in parole che parlano dei nostri bisogni. Solo allora possiamo vedere l’altro come un essere umano ed interessarci dei suoi bisogni tanto quanto dei nostri.

Se i due bisogni fossero inconciliabili?

Non esistono due bisogni inconciliabili, non ci sono bisogni in contrapposizione. Quelle che possono essere in contrapposizione sono le strategie. Con la CNV impariamo a lasciar andare la strategia che avevamo in testa e a metterci in contatto con i bisogni, da lì emergeranno strategie che terranno conto di tutti.

Durante i tuoi seminari, hai mai trovato resistenza da parte delle persone?

Se penso che una persona che ho davanti sia resistente mi chiedo che cosa le ho visto fare o dire che io chiamo resistenza e che perciò parla del mio bisogno di ascolto, considerazione o attenzione. Mi chiedo poi quale sia il bisogno dietro ciò che dice o che fa. Se mi dice che è troppo difficile, magari mi sta esprimendo un bisogno di sostegno o di leggerezza.

Perché è così impegnativa la CNV?

Inizialmente è come imparare un’altra lingua, non siamo abituati e ci vuole tempo per formare anche solo una frase. Poi credo che la CNV metta in discussione molti meccanismi che finora pensavamo fossero gli unici a nostra disposizione e questo può far paura. Rosenberg diceva che lo scopo non è diventare perfetti, che è bene accogliersi pienamente qui dove ci troviamo ora, con i nostri giudizi, chiedendoci di quali bisogni ci parlano. Quando io ho iniziato ad esplorare la CNV ho fatto molta fatica con le parole e ho avuto diversi giramenti di testa, nello stesso tempo ho quasi subito visto grandi benefici nelle relazioni con amici, in famiglia e al lavoro. Intraprendere questo percorso insieme ad altri può essere molto d’aiuto.

Quanto tempo ci vuole per imparare questa nuova lingua?

Non si finisce mai di imparare. E’ una continua ricerca. Io stessa continuo ad imparare da ogni singola esperienza come formatrice ed è proprio questo l’aspetto che mi piace di più.

Ci sono popolazioni che usano naturalmente la Comunicazione Nonviolenta?

Marshall Rosenberg raccontava di un gruppo etnico della Malesia che si rivolse a lui per risolvere un conflitto con una multinazionale che aveva iniziato a deforestare il territorio dove vivevano. Lui si rese conto che la loro lingua era pura CNV.

In questo caso, c’è il bisogno della multinazionale di guadagnare soldi deforestando e il bisogno della tribù di preservare la loro terra. I due bisogni si equivalgono?

Sono entrambe strategie, non bisogni. I soldi non sono un bisogno, sono una strategia che a volte ci permette di soddisfare diversi bisogni: autonomia, sicurezza, riconoscimento, ecc. E’ chiaro che nel momento in cui mi trovo davanti persone che operano nel nome di un organizzazione, andare verso una connessione reciproca diventa più difficile. Nel suo libro Parlare Pace, Rosenberg descrive come influenzare organizzazioni, multinazionali e anche governi che hanno una visione che definisce l’essere umano come giusto o sbagliato e che di conseguenza usano il potere sulle persone e non con le persone. Rosenberg mostra un modo per entrare in connessione attraverso singole persone che lavorano all’interno di queste organizzazioni e che hanno potere decisionale. Ovviamente qui la cosa si fa più complessa e personalmente credo che questa sia la sfida del momento: come creare organizzazioni al servizio della vita, cioè che tengano conto di tutti i bisogni delle persone coinvolte. Credo che se come specie vogliamo sopravvivere è ora di iniziare seriamente questa ricerca a tutti i livelli. Allora forse insieme potremmo ancora trovare strategie diverse per affrontare le guerre in corso, la povertà, il cambio climatico e la distruzione dell’ambiente, temi che riguardano tutta la specie umana e non solo.

Come si attua la CNV con i bambini?

Come con gli adulti, ovviamente adattando il linguaggio all’età. Più i bambini sono piccoli, più imparano velocemente perché sono ancora in contatto con la loro natura empatica. Quando crescono, ricevono l’educazione della nostra cultura in famiglia, scuola e università e imparano così un modo di pensare e parlare che rende difficile il contatto con se e con gli altri, come per esempio attraverso il concetto dei premi e delle punizioni. Ci sono diversi libri in proposito che propongono come usare questa comunicazione insieme ai bambini.

Per saperne di più:

Centro Esserci di Reggio Emilia: http://www.centroesserci.it/; centro internazionale per la comunicazione non violenta: www.cnvc.org.

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