Meditiamo sulle razionali posizioni scettiche di un ambientalista critico: Hermann Sheer
La Conferenza sul clima di Parigi si chiama COP 21 perché è il 21esimo vertice dell’ONU convocato, dal 30 novembre all’11 dicembre 2015, sull’argomento. La si può considerare una moltitudine di eventi raggruppabili in 3 categorie: 1) dentro la sede di Le Bourget, il tavolo negoziale vero e proprio; 2) le conferenze e le iniziative varie di contorno, inserite nel programma ufficiale, sia dentro Le Bourget che in città; 3) i dibattiti “esterni” e le manifestazioni anche critiche organizzate da chiunque e ovunque nell’Ile de France.
C’è quindi la vera e propria Assemblea istituzionale sul modello ONU, che si tiene in una grande sala riempita dalle 195 delegazioni degli Stati partecipanti, con tribuna per giornalisti e funzionari.
Vi sono poi gli spazi e le aule per gli incontri a latere previsti nel programma, che possono tenersi anche fuori Le Bourget.
A tutto ciò fanno corona, in qualche caso con intenzioni di assedio, migliaia di riunioni, manifestazioni, esposizioni, organizzate nell’occasione e in ogni quartiere di Parigi da associazioni, enti locali, centri culturali, istituzioni pubbliche e imprese.
Per un mio errore nel focalizzare la data di scadenza (mi ero convinto falsamente che fosse il 20 novembre) non sono riuscito ad accreditarmi come giornalista e quindi ho dovuto dare addio alle comodità (ad es. i mezzi della sala stampa, inondata di comunicati, con i grandi schermi che riportano in diretta il dibattito in aula) e alla libertà di movimento che sono privilegio della professione. Gioco forza posso solo seguire gli eventi collaterali e le iniziative di movimento: ma ogni limite può rappresentare una opportunità.
Penso infatti sia inutile fare concorrenza agli addetti delle grandi testate che si sono radunati a mo’ di sciame di cavallette: lascio volentieri a loro l’incombenza di stare dietro all’evoluzione della discussione sulla bozza di accordo.
Che senso ha, infatti, riferire, magari minuto per minuto, di quante pagine si va restringendo il testo iniziale, quanti punti controversi contiene tra parentesi quadre, quante opzioni vengono aggiunte o abbandonate?
Bisogna cercare di cogliere il nocciolo di quello che succede, non dettagli di poco significato.
Tra gli ambientalisti ufficiali c’è chi, rifacendosi al precedente di Copenhagen del 2009, teme che verrà fuori un “mini-accordo” solo di facciata. Al vertice della città danese, a proposito di pagine, l’ultima versione del documento ne contava tre anche a causa di un colpo di mano della presidenza, che aveva lavorato in segreto ad un testo alternativo rispetto a quello su cui si svolgeva la discussione ufficiale. Il timore è che Fabius a Parigi coltivi questa tentazione: sta di fatto che il presidente della COP 21 non manca di lanciare i suoi allarmi rispetto alla versione di accordo messa a punto dai ben 7.000 negoziatori tecnici.
Questa versione da lunedi 7 dicembre fino a mercoledi 9 farà da base delle discussioni a livello dei ministri dell’Ambiente (che subentrano ai capi di Stato intervenuti per “benedire” l’apertura dei lavori) che dovranno condurre al testo finale per l’11 dicembre.
Da “antigiornalista” quale autoironicamente mi definisco provo a riferire di posizioni di “alternativi”, sicuramente non pagati dalle lobby del nucleare e del petrolio, che sono del tutto scettiche rispetto agli appelli per un accordo sul clima a Parigi quale “ultima spiaggia” per la sopravvivenza dell’umanità.
Non si tratta di condividere immediatamente questi atteggiamenti, ma di essere spinti a riflettere e studiare per dare comunque una base più solida alle proprie convinzioni, quali che esse siano. A furia di slogan e di tweet non credo si possa veramente andare da qualche parte, o almeno da quelle parti in cui si desidera, nei propri sogni, spostarsi. Faccio un esempio: il 29 novembre sono passato dalla Darsena di Milano dove era in programma la “marcia per il clima” in vista della COP 21. Fosse stato distribuito, da parte di qualcuno dei promotori, uno straccio di volantino! Invece imperava la “mascherata” folkloristica tanto per farsi scattare delle foto, ad uso della stampa (vituperata a parole ed inseguita nelle sue esigenze e nei suoi vizi) e dei social network!
Mi chiedo: si crede davvero che basti travestirsi da carota, far volare palloncini verdi ed inalberare qualche cartello per sensibilizzare i cittadini (ammesso che i presunti sensibilizzatori siano a loro volta informati e sappiano qualcosa di più dei cartelli che implorano ai potenti di fare patti, quali che essi siano, per “tagliare più C02”!)? La risposta a me pare negativa, ma io sono semplicemente un brontolone “saccente” non al passo con le nuove dinamiche della comunicazione (?) sociale…
Ragion per cui, a seminare dubbi laddove allignano le beate certezze conformiste, ecco che tiro in ballo un personaggio ancora più antipatico e saccente del sottoscritto, Hermann Sheer, il tedesco “crucco” presidente di Eurosolar, disgraziatamente scomparso nel 2010.
E’ stato sicuramente uno dei più infaticabili promotori pratici dell’energia solare (e delle rinnovabili in genere) nel mondo, l’ispiratore della avanzatissima legge tedesca sulle energie rinnovabili: la sua opinione, condivisibile o meno, o condivisibile solo in parte, propongo di valutarla attentamente e di andarla a studiare dove si può trovare nella forma più approfondita e compiuta: ohibò, in un libro intitolato “Imperativo energetico” (pubblicato in Italia nel 2011 per i tipi delle Edizioni Ambiente).
Sheer definisce “minimalismo organizzato” la “trappola concettuale delle conferenze mondiali sul clima e dell’emission trading”. A suo parere il fallimento di Copenhagen doveva essere messo ampiamente nel conto.
“La Conferenza mondiale sul clima seguì lo stesso copione delle 14 precedenti, a partire dal 1995: drammatici appelli “adesso o mai più” prima della conferenza, contrattazioni meschine e paralizzanti durante la conferenza con risultati penosi, la decisione di tenere una conferenza successiva e poi l’apra condanna dei colpevoli…”
Ma se si deve trovare un colpevole, secondo Sheer, è nel concetto in sé di queste conferenze. “Esso si basa su due premesse molto discutibili: bisogna assolutamente trovare una soluzione di compromesso con obblighi relativamente equivalenti per tutti i partecipanti, perché si tratta di un problema globale che interessa tutti. Le necessarie misure di tutela del clima devono essere considerate in termini economici e quindi occorre una equa distribuzione degli oneri (burden sharing) sostenuta da un ampio consenso. Non da ultimo, vige il motto “o tutti o nessuno”. Quello che in teoria suona convincente è in realtà illusorio”.
Si sarebbe creata, intorno alla liturgia delle COP, una diplomazia climatica conformista che ha formato una community includente alcuni istituti di ricerca sul clima e alcune ONG ambientaliste internazionali.
Quale è il punto, per Sheer?
“Un accordo davvero sostanziale con obblighi uguali e simultanei non è per ora raggiungibile, perché le singole situazioni non sono confrontabili. Anche il Protocollo di Kyoto ha potuto essere attuato solo perché la maggior parte dei Paesi, tra cui anche Cina e India, erano esonerati dall’obbligo di agire… Nella migliore delle ipotesi e dopo lunghe e faticose trattative, si potrebbe raggiungere un consenso su obblighi minimi troppo bassi, che comunque sarebbero assolutamente inadeguati a fronteggiare il rischio dei cambiamenti climatici”.
Sheer prende di petto l’obiettivo che già a Copenaghen avrebbe dovuto essere adottato nero su bianco, il famoso tetto dei 2 gradi Celsius di aumento.
“Di fatto ciò significa che si accetta un ulteriore innalzamento delle soglie di rischio per il clima (dall’attuale quota di 385 ppm di CO2 nell’atmosfera a 450 ppm)… Come è venuto in mente (alla “community pro clima” – ndr) di adottare l’obiettivo dei due gradi come unità di misura di tutte le cose, nonostante essa stessa citi costantemente il rapporto ormai famoso dello scienziato britannico Nicholas Stern, secondo il quale i crescenti mutamenti climatici causano molti più danni economici che non la crescita economica in sé? Come può un obiettivo così modesto aprire nuove prospettive?”.
Aumento di 2° C: se tutto va bene siamo rovinati comunque!
Si potrebbe osservare che un cattivo accordo con qualche obbligo è sempre meglio di nessun accordo. Ma a questo punto Sheer apre un nuovo fronte di critiche perché in questo caso la stessa possibilità di obblighi minimi viene vanificata dalla concessione di “strumenti flessibili”, ricavati dall’economia di mercato, per il calcolo dei crediti di emissione. Sheer definisce questo sistema un “vicolo cieco” e dedica un intero paragrafo di “Imperativo energetico” a contestarlo.
Il sistema è così concepito: i crediti di emissione assegnati a ogni Paese in base ai propri obblighi minimi di riduzione possono essere contrattati e calcolati a livello internazionale. Chi emette più di quanto gli è concesso può acquistare dei “diritti di emissione” da altri Paesi che emettono meno della quota che gli è stata fissata. Oltre a questo scambio di “diritti di emissione” tra Paesi, un secondo strumento è la possibilità per le aziende che hanno superato i limiti di emissione consentiti di poterli riscattare attraverso investimenti che mirano a ridurre la CO2 in un altro luogo.
La nostra aria non è una merce!
Sheer contrasta l’idea, promossa da economisti e politici e sostenuta dalle grandi organizzazioni ambientaliste, che il commercio delle emissioni costituisca un mezzo efficace ed importante per la tutela del clima.
“Già in occasione della Conferenza mondiale sul clima del 2001 a Bonn, EUROSOLAR aveva ammonito le organizzazioni ambientaliste quali Greenpeace e WWF, che erano a favore dell’implementazione di tali “strumenti flessibili” attraverso la sua (di EUROSOLAR- ndr) campagna “La nostra aria non è una merce”, mettendole in guardia sul fatto che lo scambio di crediti avrebbe bloccato, anziché accelerato, il passaggio ad un approvvigionamento energetico a emissioni zero”…
Il cosiddetto approccio di mercato, secondo gli economisti, porterebbe ad un impiego ottimale degli investimenti: il ragionamento è che dato che gli investimenti a tutela del clima costano meno nei Paesi in cui il salario è basso, i Paesi industrializzati possono risparmiare sui costi e ottenere lo stesso effetto in termini di riduzioni. Di fatto questo non succede. “Gli strumenti flessibili rendono il minimo (fissato dalle quote – ndr) un limite massimo. L’ammonimento “non superare il minimo” diventa un incentivo economico. E in più, i Paesi vengono ammoniti con iniziative unilaterali dall’oltrepassare questo obbligo minimo di riduzione delle emissioni perché provocherebbero danni economici a loro stessi… Se un Paese riduce in modo unilaterale le proprie emissioni attraverso “investimenti in tecnologie pulite, gli altri paesi reagiscono incrementando le loro emissioni. In questo modo un Paese sarebbe punito per i suoi precoci investimenti in tecnologie pulite. La decisione unilaterale di evitare le emissioni porterebbe alla situazione in cui chi si assume le spese per ridurre le emissioni o evitarle non coincide con chi poi gode dei risultati positivi ottenuti e svilupperebbe la “problematica degli opportunisti”, cioè ci sarebbe chi si approfitta degli sforzi degli altri”.
Liberarsi di un male è comunque un bene!
L’approccio delle conferenze mondiali, secondo Sheer, porta a conseguenze assurde e a una paralisi senza uscita della politica climatica mondiale. “ (Questo approccio) nasconde tutti gli altri problemi e pericoli dell’approvvigionamento energetico convenzionale e non riconosce che, indipendentemente dai calcoli globali, la popolazione nutre un interesse di base nella riduzione di tutte le emissioni nocive. Questi strumenti di tutela climatica non tengono conto di altre sostanze dannose derivanti dallo sfruttamento convenzionale dell’energia, che non sono gas serra e che quindi non hanno nulla a che fare con la tutela globale del clima”.
Un esempio? La costruzione di centrali nucleari con la scusa di risparmiare CO2. Lo si può notare con il Greenwashing praticato da AREVA ed EDF, l’industria nucleare francese, che è la principale sponsor della COP 21.
Continua Sheer: “Poiché gli strumenti delle emissioni sono considerati sacrosanti, si arriva alla conclusione dogmatica che ogni attività che mira a promuovere la sostituzione delle risorse energetiche, sia in Germania che altrove, non debba aver luogo finché il mercato dei crediti resterà l’unica unità di misura di ogni cosa. I numerosi sostenitori degli “strumenti flessibili”, che al contempo spingono per un rapido potenziamento delle energie rinnovabili, non conoscono a sufficienza questa logica elementare”.
L’aria non va giocata in Borsa!
Nella rappresentazione neoliberista, spiega Sheer, si permette l’artificio politico dello Stato che fissa diritti di inquinamento legalizzati a livello nazionale ed internazionale.
“I governi che vogliono vendere all’asta i crediti di emissione devono sperare di guadagnarci. Ciò che entra nelle casse dello Stato grazie allo scambio dei crediti ha la funzione di una tassa sulla CO2, però con spese burocratiche e costi di gran lunga superiori rispetto ad essa. E’ presumibile quindi che i governi non vogliano più rinunciare a queste entrate e siano quindi propensi a rinviare gli incentivi per le energie rinnovabili. Indirettamente diventano così partner commerciali dei responsabili delle emissioni. Si potrebbe prevedere anche la nascita di nuove bolle speculative, soprattutto se si considera che il commercio dei diritti di emissioni è visto come uno dei mercati finanziari con maggior potenziale di crescita. La gestione fittizia degli speculatori che dal 2008 hanno dato il via alla crisi finanziaria mondiale è probabilmente tanto più incontrollabile quanto più si specula effettivamente sull’aria”.
Morale della favola, per Sheer (meditate gente, e meditino soprattutto coloro che sono andati alle marce del 29 novembre): “Le conferenze mondiali sul clima restano sempre bloccate su un concetto base, ovvero sul fatto che si tratta di idee impossibili da realizzare. Quante altre conferenze mondiali sul clima saranno necessarie prima di ammetterlo? Quando e dopo quanti aumenti delle emissioni dei gas serra si riuscirà ad ammettere e ad accettare la perdita di autorità dei governi e delle organizzazioni internazionali? (…) Il fatto che si trovino sempre nuove varianti sul modo di applicare gli strumenti flessibili, nonostante le loro evidenti contraddizioni, ha anche altre motivazioni: la diplomazia internazionale sul clima, insieme al Segretariato internazionale sul clima e alle autorità nazionali, è divenuto un sistema autoreferenziale. E’ nato un business sulla tutela climatica basato sullo scambio delle quote di emissione, su avvocati e certificatori ben pagati, su cui si specula già fin troppo e dietro il quale si nasconde la segreta speranza dei governi nazionali di non dovere affrontare la conseguenza a lungo proposta, ovvero il passaggio alle energie rinnovabili se non altro in base ad interessi elementari. E’ difficile non rendersi conto che le conferenze mondiali sul clima basate sul consenso vengono usate dai governi, che non hanno alcuna volontà di azione, come semplici “stazioni di smistamento” delle quote di emissione. In casa possono pronunciarsi a favore di misure più coerenti all’interno di un quadro contrattuale internazionale da concordare, sicuri che verranno poi ammorbidite o rifiutate a livello internazionale. Ed è ancora più comprensibile che le critiche delle organizzazioni internazionali si scaglino principalmente contro gli accordi mancati e gli abusi, ma molto meno contro il concetto in sé. Alcuni fanno proprio addirittura l’obiettivo delle trattative, compromesso fin dall’inizio, ovvero l’obiettivo dei due gradi”.
Cosa c’è da ponderare, dopo questo discorso, una volta che si sia verificata la sua fondatezza?
Che non bisognerebbe parlare di “transizione” ma di “rivoluzione” energetica, nel senso tecnologico ma anche sociale ed economico.
Bisogna acquisire la consapevolezza che l’attuale sistema energetico è frutto di protezionismo politico ed esso vuole prolungare la sua esistenza anche, e non da ultimo, attraverso le trattative sul clima mondiale.
Sheer propone una strada basata su tre pilastri, che ogni Paese può percorrere in piena indipendenza:
- Abolire ogni incentivo pubblico all’economia fossile (e nucleare);
- Stabilire la priorità di dispacciamento per le FER;
- Investire per costruire l’infrastruttura pubblica del sistema rinnovabile al 100%, una infrastruttura che fa perno sul ruolo delle aziende pubbliche locali.