La documentarista che ha aiutato Snowden presenta in Europa la sua opera “Citizenfour”, dove mostra la preparazione della più grande fuga di notizie della storia. “Snowden non sta collaborando o lavorando per nessun altro servizio segreto; si tratta di un’invenzione del governo”, assicura la giornalista, scelta dall’ex analista della NSA per rendere pubbliche le notizie da lui scoperte. “Quello che Glenn e io pubblichiamo con Snowden mette in discussione la leadership di Obama”.

Di Silvia Font per Diario Turing

A questo punto del film, chi non sa chi è Edward Snowden? La sua denuncia sui sistemi di spionaggio indiscriminati e di massa utilizzati dalla National Security Agency degli Stati Uniti (NSA) contro governi, società e cittadini è passata alla storia come la più grande fuga di notizie a opera di un dipendente dei servizi segreti. Se dobbiamo ringraziare qualcuno per questo –oltre al giovane informatico– è Laura Poitras, documentarista statunitense residente a Berlino, scelta da Citizenfour per rendere pubblica la sua storia “senza curarsi dei rischi personali”. Rischiando a sua volta la vita, lei lo ha fatto.

Per più di cinque mesi si sono scambiati comunicazioni crittografate, fino a che si sono riuniti nel giugno 2013 in una stanza d’albergo di Hong Kong insieme ai giornalisti Glenn Greenwald ed Ewan MacAskill del Guardian. Là, durante otto giorni di tensione alle stelle, Poitras si è messa dietro alla macchina da presa per  registrare un documentario di impatto quasi pari a ciò che stavano per svelare: il backstage dei preparativi della pubblicazione della notizia bomba che avrebbe condotto Snowden all’esilio a Mosca, dove vive temporaneamente come rifiugiato politico.

Un anno e mezzo dopo queste prime rivelazioni, in quel momento anonime, che occuparono le prime pagine dei mezzi di comunicazione di tutto il mondo, continuiamo a scoprire con il contagoce nuovi dati. Per quanto possiamo conoscere il caso Snowden,  il documentario di Poitras risulta sorprendente e offre un’occasione unica di essere testimoni di una trama che si sviluppa tra comunicazioni crittografate, fonti anonime, spionaggio internazionale, fughe di notizie ai giornali e un orologio che corre contro i protagonisti, prima che i servizi segreti americani li scoprano.

E’ raro che la realtà superi in modo così chiaro la finzione; lungi dal ricostruire o ricreare una supposta realtà, Citizenfour riprende in diretta un pezzo di storia del XXI secolo, che ha segnato senza dubbio un primo e un dopo nella credibilità degli Stati Uniti come potenza politica internazionale, ma anche nella forma di comportamento dei cittadini come membri della società in rete.

Dopo la prima mondiale a New York, Laura Poitras sta girando i festival di tutta l’Europa  – anche se non non si conosce ancora la data di uscita del suo film nei cinema spagnoli – tra cui il Festival Internazionale del documentario di Amsterdam, dove eldiario.es ha potuto intervistarla.

Quando è cominciato il suo interesse per il tema della sorveglianza?

Molto tempo fa, quando stavo lavorando ai miei ultimi documentari sull’America post 11 settembre. La sorveglianza veniva utilizzata nella cosiddetta guerra al terrorismo e praticamente tutti gli americani venivano spiati. Prima avevo realizzato una pellicola sull’occupazione dell’Iraq (My Country My Country) e un’altra su Guantánamo (The Oath). Con quest’ultimo documentario nell’ottobre 2012 mi sono trasferita a  Berlino per montare in modo sicuro il materiale di quella che sarebbe stata l’ultima parte di una trilogia sull’America post 11 settembre. Volevo riportare la storia nel paese, occupandomi di come veniva sviluppata questa guerra al terrorismo negli Stati Uniti.

Avevo anche un interesse a livello personale, perché sono stata inserita in una lista di sospetti e per molti anni mi hanno fermata alla frontiera ogni volta che viaggiavo. Hanno cominciato nel 2006 dopo il documentario sull’Iraq. La storia che stavo mostrando mi ha fatta apparire in qualche modo in quella lista.

E’ anche per questo che ha cominciato a usare la crittografia?

Sì, perché volevo proteggere il mio materiale quando attraversavo la frontiera, ma a un certo punto ho cominciato anche a entrare in contatto con persone che mi interessavano per il progetto a cui stavo lavorando e per comunicare con loro avevo bisogno della crittografia. Tra loro c’era Jacob Appelbaum, con cui volevo parlare della possibilità di filmare il suo lavoro con attivisti di tutto il mondo, per insegnare loro come aggirare i sistemi di sorveglianza. Così ho dovuto imparare!

Questa combinazione tra i suoi precedenti lavori sulla sorveglianza nel paese e le sue conoscenze di crittografia è stata decisiva perché Snowden la scegliesse come la giornalista a cui rivelare il suo segreto. Com’è avvenuto il vostro primo contatto nel gennaio 2013?  

Per caso io conoscevo già il PGP (Pretty Good Privacy, il crittosistema più usato al mondo, N.d.T.). Mi ha scritto e mi ha chiesto che gli mandassi la mia “key”. L’ho fatto e gli ho domandato chi era e cosa voleva. Mi ha risposto che lavorava per la NSA e che aveva certe informazioni. Mi ha avvertito che sarebbe stato pericoloso e si è fatto promettere che le avrei rivelate a prescindere da quello che gli sarebbe successo.

Cos’ha pensato ricevendo questi primi messaggi?

Mi occupavo da tempo del tema della sorveglianza e sapevo che se quello che mi diceva era vero sarebbe stata una notizia esplosiva. Sapevo anche che aveva ragione: poteva essere molto pericoloso per entrambi. Non ho mai avuto però la tentazione di tirarmi indietro. Stavo da tempo in questo tema, ero inserita in una lista per cui mi fermavano sempre alla frontiera, dunque credo che avessi già deciso di non lasciarmi intimidire. Volevo fare il mio lavoro e preoccuparmi se mai di quello che faceva il governo.

Sono convinta che il giornalismo sia necessario, specialmente nel contesto di quello che sta succedendo di questi tempi negli Stati Uniti. Ho la sensazione che molti mezzi di comunicazione mainstream siano venuti meno alla loro funzione nei confronti del pubblico; è quindi fondamentale che ci siano giornalisti pronti a fare domande scomode e a chiedere al governo di rendere conto del suo operato. Avevo già imboccato questa strada, così quando Snowden mi ha contattata ero nervosa ma decisa.

Non ha mai avuto dubbi?

No. Sono stata molto cauta e gli ho fatto molte domande, perché temevo che potesse essere un tranello del governo. D’altra parte io faccio documentari e dunque ero curiosa di capire perché aveva contattato proprio me. Mi ha spiegato che sapeva che lavoravo sul tema della sorveglianza per via di un cortometraggio che avevo pubblicato nel New York Times.

“E’ stata lei a scegliersi”, come appare nel documentario e come Snowden le dice in uno dei suoi messaggi.

Sí, dice proprio questo! Avevo pubblicato quella storia nel NYT, ero inserita in una lista di sospetti e aveva letto che Glenn (Greenwald) si era occupato del tema. Tutti questi fattori lo hanno indotto a pensare che sarei stata interessata e non mi sarei lasciata intimidire.

Si immaginava in quel momento che la storia avrebbe assunto proporzioni così enormi? Ha affrontato tutto da sola, o ha potuto condividerlo con qualcuno?

No, non lo immaginavo! Stavamo parlando di servizi segreti, non ci sono fughe di notizie da queste agenzie. In passato altri, i cosiddetti quattro della NSA (William Binney, Thomas Drake, J. Kirk Wiebe e Edward Loomi) avevano parlato con dei giornalisti, ma a differenza di Snowden non avevano documentazione.

Durante i cinque mesi di corrispondenza ci sono stati dei progressi, finché a un certo punto è diventato evidente che tutto questo sarebbe diventato realtà. Così ho avvisato le persone più vicine e i miei collaboratori di ciò che stava succedendo, della possibilità di un’indagine che avrebbe coinvolto tutti quelli che erano in contatto con me.  Ho parlato con la mia addetta al montaggio Mathilde Bonnefoy, con il produttore Dirk Wilutzky e con la mia coproduttrice Katy Scoggin. E’ stato incredibile, nessuno si è tirato indietro, altrimenti le cose avrebbero potuto andare in modo diverso.

A quel punto è salito a bordo Glenn Greenwald.

Sí, Glenn è stato grande, molto coraggioso e senza alcun tipo di dubbi. Nel febbraio 2013 Snowden mi ha detto che l’informazione avrebbe richiesto il lavoro di più di una persona per essere pubblicata e mi ha raccomandato di coinvolgere Glenn. In quel momento però lui era a Río de Janeiro e io non potevo parlare a nessuno di una cosa simile via email; bisognava farlo di persona. Così ho potuto spiegargli ciò che stava succedendo solo in aprile, quando ci siamo incontrati a New York. Gli ho proposto di collaborare e lui ha accettato subito, senza la minima esitazione.

E’ tornato a Río, ma non sapeva usare la crittografia e questo è stato un grave problema, perché era sempre più chiaro che dovevamo incontrarci (con Snowden), ma io non potevo fornirgli particolari. Non sapevo quando sarebbe accaduto esattamente, però verso metà maggio sono tornata negli Stati Uniti in attesa di sapere dove vederci. Per tutto questo tempo dicevo a Glenn che dovevamo parlare, che dovevo raccontargli ciò che stava succedendo, però non volevo dire troppo perché temevo che i messaggi venissero intercettati. Alla fine lui si è messo direttamente in contatto con Snowden attraverso una chat crittografata.

Greenwald svela nel suo libro che Snowden cercò di contattare lui per primo, ma che questo non fu possibile perché non sapeva usare la crittografia. Più tardi fu proprio l‘ex analista dell’NSA a insegnargliela.

Sí, Glenn non ne sapeva abbastanza per poter comunicare in modo sicuro e io non avevo l’esperienza sufficiente per guidarlo. Inoltre non volevo fare casino, perché sapevo che il rischio era alto. Alla fine Snowden ha preso in mano la situazione e gli ha spiegato come fare. E’ diventato il suo insegnante!

E così arriva il momento in cui Greenwald, il giornalista del Guardian Ewen MacAskill e lei vi riunite all’Hotel Mira di Hong Kong con Snowden.

Non sapevamo dove ci saremmo visti; Snowden era già uscito dal paese e per ovvie ragioni non voleva rivelarlo in anticipo. Poi ci ha detto che la riunione sarebbe stata a Hong Kong. In quel momento c’era già un certo pericolo, di fatto all’ultimo momento il Washington Post ha deciso di non mandare il suo corrispondente. Negli Stati Uniti è ormai diffusa una certa cultura del timore e suppongo che gli sia sembrato troppo rischioso. Mi hanno anche consigliato di non andare, ma io sono partita lo stesso.

Grazie a questo il mondo ora può vedere un documento cinematografico unico, in cui da una stanza d’albergo all’altro capo del mondo si svela come è avvenuta la maggiore fuga di notizie riservate nella storia della NSA. Com’è stato il primo momento in cui vi siete incontrati di persona?

Glenn e io siamo rimasti a bocca aperta vedendo com’era giovane, soprattutto io, perché parlavo con lui da cinque mesi. Ha solo 29 anni. Siamo entrati nella sua stanza d’albergo, io ho tirato fuori la telecamera e ho cominciato subito a riprendere. Gli altri sono rimasti un po’ sorpresi, ma io avevo intenzione di filmare tutto, sapevo che Glenn non avrebbe perso tempo e si sarebbe messo subito a fare domande. Non volevo perdermi niente!

Come è venuta l’idea di filmare la vostra riunione? E come mai Snowden ha accettato, sapendo che sarebbe diventato l’uomo più ricercato dai servizi segreti di mezzo mondo?

Ho dovuto convincerlo, ma questo è successo prima del viaggio a Hong Kong. In un primo momento è stato lui a decidere di rivelare la sua identità, anche se probabilmente non riteneva necessario conoscerci. Pensava di consegnarci i documenti senza vederci. Quando mi ha detto questo, io gli ho spiegato che avemmo dovuto incontrarci e che avevo bisogno di filmarlo. Lui ha rifiutato, temeva che la cosa fosse controproducente. Io gli ho detto che i mass media lo avrebbero fatto in ogni caso e che non aveva molte alternative.

Perché ha deciso di metterci la faccia, invece di cercare di tenersi nell’ombra il più a lungo possibile?

Credo che abbia preso questa decisione perché sapeva che intorno a lui ci sarebbe stata un’indagine di massa; pur pensando che forse avrebbe potuto mantenere l’anonimato, aveva la sensazione che questo avrebbe influito sulla vita di altre persone e non voleva che accadesse. Voleva assumersi la responsabilità.

In ogni momento del documentario vediamo uno Snowden molto sicuro di quello che sta facendo, al punto da risultare sorprendente per la sua tranquillità. Nonostante il film trasmetta allo spettatore una tensione costante dall’inizio alla fine, pare che in quella camera d’albergo regnasse la calma.

Be’, io non era per niente tranquilla! Ero molto nervosa e temevo che ci avrebbero beccato in qualsiasi momento. Ha ragione, però, c’è una certa atmosfera di calma, che poi diventa più tesa man mano che la settimana avanza e cominciamo a pubblicare. Comunque è sorprendente vedere com’è tranquillo Snowden, visto tutto quello che sta rischiando.

Perché crede che Snowden abbia corso questo rischio e deciso di denunciare le pratiche della NSA, sapendo quello che era successo ad altri informatori come Chelsea Manning?

Nel documentario lo dice chiaro e tondo: i governi stanno facendo in segreto cose che il pubblico deve conoscere. Viviamo in una democrazia e le democrazie non possono tenere la porta chiusa, ma qui si stanno prendendo decisioni all’insaputa della gente. Questi programmi di intercettazione e spionaggio sono molto significativi e hanno un grande impatto sulle persone; molti di essi stavano violando parti fondamentali della Costituzione. Credo che tutte queste ragioni lo abbiano spinto a condividere questa informazione con l’opinione pubblica.

In un altro momento delle riprese Snowden commenta che non vuole essere ritratto per non distrarre dalla notizia in sé, come oggi fanno molti mezzi di comunicazione. Crede che le cose siano andate così, che si parli più di lui che di quello che ha scoperchiato?

Credo che cerchi di mantenersi più possibile ai margini. Dopo Hong Kong non ha parlato con nessun mezzo di informazione, però in un certo senso si è trasformato in un simbolo. So che non era questa la sua intenzione, ma credo che faccia alcune dichiarazioni perché sente di avere una certa autorità in materia e di poter aiutare la gente a capirne l’importanza.

Il 9 giugno 2013 tutti i mezzi di informazione riprendono il video di YouTube in cui Snowden rivela la sua identità e si assume tutta la responsabilità della fuga di notizie. Come riesce a lasciare Hong Kong e perché entra in scena Wikileaks?

Snowden si è nascosto subito. Io non sapevo quali erano i suoi piani e perché avesse scelto Hong Kong. So solo che Sarah Harrison si era occupata della richiesta di asilo politico a vari paesi.  Quando gli Stati Uniti hanno emesso un ordine di estradizione contro di lui, suppongo si siano resi conto che non era sicuro restare là.

Wikileaks aveva già esperienza nel tema dell’asilo per quello che era successo con Julian Assange, così hanno capito subito che Hong Kong non era un luogo sicuro. Forse non lo avrebbero estradato immediatamente, ma potevano incarcerarlo, ossia la situazione che lui voleva evitare.

Perché crede che la Russia sia stata l’unica a concedere asilo politico a Snowden?

Mentre stava facendo scalo a Mosca gli hanno revocato il passaporto. Non è che volesse fermarsi là. Hanno chiesto asilo a molti altri paesi, però ….

Sí, ma la Russia non è esattamente un paese caratterizzato da trasparenza e rispetto della libertà di stampa. Crede che lo abbia accolto per avere un vantaggio contro gli Stati Uniti?

Quello che so è che Snowden non sta collaborando o lavorando con nessun altro servizio segreto. Lo so io e lo sanno tutti quello che lo conoscono. Si tratta di un’invenzione del governo che non ha alcun senso. Se avesse voluto lavorare con un altro governo, perché si sarebbe riunito con Glenn e con me per consegnarci quella documentazione? E’ completamente illogico.

Come si incontra con Snowden in Russia?

Normalmente ci vediamo in posti diciamo neutrali. Comunque non posso dire quello che so.

Quando avete girato l’ultima scena, in cui appare con la sua fidanzata Lindsey, gli avete mostrato il documentario. Qual è stata la sua reazione?

In settembre sono andata a Mosca con la mia addetta al montaggio Mathilde Bonnefoy e abbiamo organizzato una proiezione apposta per lui. Non smetteva di prendere appunti ogni volta che sullo schermo del computer compariva un’immagine. Sapeva che i servizi segreti avrebbero esaminato il documentario fotogramma per fotogramma. Abbiamo parlato di come montare certe parti in cui non volevamo mettere tutta l’informazione. Per il resto ho avuto il controllo completo del montaggio e Snowden non ha messo alcuna condizione.

Uno degli aspetti più impressionanti del documentario è pensare che tutto è successo all’insaputa dei servizi segreti. Eravate sempre un passo avanti. Come siete riusciti a mantenervi fuori dai radar? E’ stato un piano elaborato dallo stesso Snowden?

Con la crittografia. La crittografia funziona! Ovviamente lui era molto esperto e mi dava solo l’informazione  necessaria al passo successivo. Io sapevo le cose passo a passo. Per esempio non mi ha raccontato che stava pensando di chiedere asilo politico per lasciare il paese. Me lo ha detto quando ce ne’eravamo già andati.

Non credo che avesse esattamente un piano; il punto era piuttosto ciò che la gente aveva bisogno di sapere. Le pubblicazioni non erano orchestrate. Io ero in contatto con Glenn, ma non è che ci coordinassimo.

Lo scorso aprile ha ricevuto con Glenn Greenwald e Barton Gellman il premio Pulitzer al Servizio Pubblico, in riconoscimento del suo contributo alla diffusione dei documenti della NSA. D’altra parte, dalla prima di Citizenfour, un mese fa, molti chiedono che le venga assegnato l’Oscar. Quale di questi premi a suo parere riconosce di più il suo lavoro?

A essere sincera credo che quando le persone rischiano la vita non si tratti tanto di premi o cose del genere. Si tratta di onorare il rischio che hanno corso, è questo che importa. Se il lavoro riceve un riconoscimento, benissimo, così più gente andrà a vederlo. Non potrei nemmeno dire quale premio preferisco. Credo che il Pulitzer sia stato una convalida da parte dei miei colleghi e che l’Oscar mi faciliterebbe il lavoro. Ho già raccontato come mi abbiano fermato alla frontiera per anni; ora sarà più difficile farlo, perché il mio lavoro è stato riconosciuto come un servizio pubblico. In un certo senso ha un impatto positivo, perché mi permette di continuare a fare quello che faccio.

Quando ha realizzato il primo documentario della trilogia in Iraq, My Country, My Country, ha dichiarato che quell’esperienza le aveva cambiato la vita. Cos’è successo con Citizenfour?

Ha segnato un primo e un dopo. So che probabilmente non potrò lavorare a un progetto o visitare un paese senza venire osservata o seguita. Non so se controllano tutto quello che faccio, ma so che verrò sorvegliata dai servizi segreti di tutto il mondo.

E’ scomparso di recente Benjamin Bradlee, direttore del Washington Post, che fece scoppiare un altro grande scandalo storico della Casa Bianca, quello del Watergate. Il presidente Obama ha colto l’occasione per rendergli omaggio e sottolineare il suo grande impegno di giornalista per raccontare “storie che andavano raccontate”. Tuttavia giornalisti come lei e Greenwald sono perseguitati, vigilati e criticati pubblicamente.

Ben Bradlee fu attaccato anche dall’amministrazione Nixon; quando diffuse i Documenti del Pentagono non lo trattarono certo bene. Accade sempre che qualcuno divulghi informazioni che i governi vorrebbero mantenere segrete. Credo che in questo caso Obama non si senta minacciato, perché è una storia passata, ma quello che io e Glenn abbiamo pubblicato adesso con Snowden mette in discussione la sua leadership. E’ un contesto differente.

 

Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo

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