Ciò che sta accadendo nelle ultime settimane dà sempre più l’impressione che il Kosovo sia come fuori controllo: assediato da pressioni e interessi esterni sempre più condizionanti, paralizzato da una stasi politica e istituzionale asfissiante, lacerato da intransigenza ed estremismi che, se da una parte ne condizionano la vita pubblica, dall’altra minacciano in maniera sempre più aggressiva le speranze di pace e di convivenza.

La paralisi è anzitutto (ma non solo) a livello istituzionale: le istituzioni kosovare, in questo momento, sembrano una via di mezzo tra una baraonda ed una palude, un caso, probabilmente, nella circostanza specifica, unico al mondo. Dopo le prime trattative post-elettorali, lo scorso 10 settembre è stata resa ufficiale la notizia del “patto di coalizione” siglato, in pratica, da tutte le forze politiche del panorama albanese kosovaro, con l’unica eccezione del PDK del premier uscente Hashim Thaci che, pur avendo vinto le elezioni, non ha conseguito i seggi sufficienti per potere costituire una propria maggioranza parlamentare.

Il patto politico (una via di mezzo tra una larghissima coalizione e una conventio ad excludendum) è stato siglato da Lega Democratica del Kosovo (LDK) di Isa Mustafa, seconda forza politica del Kosovo, il partito che fu di Ibrahim Rugova ed espresse la parte politica del movimento di auto-determinazione degli albanesi kosovari, Alleanza per il Futuro del Kosovo (AAK) di Ramush Haradinaj, già accusato per crimini di guerra e noto per il suo ultra-nazionalismo, Nisma di Fatmir Limaj e Vetevendosje (“Autodeterminazione”) di Albin Kurti, un movimento radicale schierato su posizioni di assoluta intransigenza nelle relazioni con Belgrado.

Significative dell’illeggibilità della situazione politica in Kosovo le dichiarazioni rilasciate, con la stipula del patto, da Isa Mustafa per il quale, da un lato, «lavoreremo per la prospettiva europea e per una sempre maggiore integrazione, per l’instaurazione di un dialogo aperto e democratico con la minoranza serba in Kosovo» e, dall’altro, «nel caso si dovesse giungere alla formazione di un nuovo governo, a condurre il dialogo con Belgrado [ancora bloccato nell’implementazione degli accordi del 19 Aprile 2013] potrebbe essere un esponente di Vetevendosje», vale a dire, appunto, proprio i più radicali oppositori del dialogo.

D’altro canto, che la formazione del governo sia imminente è tutt’altro che probabile. Il parlamento non ha eletto il presidente, senza il quale non possono formarsi le procedure per la verifica della maggioranza e l’insediamento di un nuovo governo, e, al tempo stesso, il PDK, contesta le procedure sin qui seguite, essendo partito di maggioranza relativa e toccando dunque a quest’ultimo, a norma di costituzione, il primo tentativo di trovare una maggioranza e formare un governo. Ipotesi remota e, in ogni caso, tutta da verificare.

Come se non bastasse, nell’occhio del ciclone è finita anche la “presidentessa” del Kosovo, Atifete Jahjaga: la quale, il 31 agosto scorso, ha prorogato per altri due anni, fino al giugno 2016, il mandato di tre giudici internazionali della Corte Costituzionale. Si tratta di una decisione controversa, dal momento che, pur essendo la supervisione internazionale del Kosovo cessata nel 2012, i funzionari nominati dall’ufficio di monitoraggio internazionale, l’ICO (International Civilian Office), avrebbero continuato a «portare avanti le loro funzioni sino alla scadenza del mandato». Viceversa, Atifete Jahjaga, in uno scambio epistolare con l’Unione Europea, responsabile della missione EULEX (Missione UE per lo stato di diritto in Kosovo) ha proceduto alla “conferma” sia dei giudici di nomina EULEX sia dei giudici costituzionali di nomina ICO.

Come ha scritto Andrea Lorenzo Capussela su Osservatorio Balcani: «Non ci sono dubbi che la presidente abbia violato la costituzione. Questo giustificherebbe l’impeachment come previsto dall’articolo 113.6 della costituzione, che sancisce che il presidente può essere rimosso nel caso commetta “grave violazione della costituzione”. […] Nominando illegalmente tre giudici costituzionali, ha screditato la presidenza, la corte, e la stessa nozione di stato di diritto. E collocando nella corte tre persone scelte arbitrariamente, ha alterato la composizione di un organo cruciale dello stato [corsivo d.A.] che potrebbe influenzare tutte le decisioni future».

In questo scenario, il Kosovo è recentemente balzato agli onori delle cronache come vero e proprio crocevia del terrorismo internazionale. Già nello scorso agosto, la relazione di Clint Williamson, capo della Special Investigative Task Force (SITF) dell’UE, aveva indicato la leadership dell’UCK (l’organizzazione terroristica albanese kosovara attiva negli anni Novanta e da cui proviene gran parte dell’attuale leadership politica) di gravi crimini contro l’umanità commessi «nelle zone ad ampia popolazione serba e rom del Kosovo a sud del fiume Ibar». È di questo settembre, invece, la notizia di una operazione della polizia kosovara che ha arrestato 40 sospetti jihadisti, mentre sembra che, fra gli 11 mila stranieri in Siria (di cui 2 mila europei), sarebbero ca. 400 i combattenti albanesi, prevalentemente kosovari. Una percentuale notevole e allarmante.

In un Kosovo già preda di traffici di ogni genere e di diffusa illegalità, allontanarsi dalla strada della giustizia sociale e della convivenza inter-etnica significa sempre più aprire le porte all’oltranzismo e all’estremismo. Con buona pace degli sforzi profusi da quanti, kosovari di ogni etnia, si adoperano per la pace e la fratellanza.