Anche quest’anno Vittorio Agnoletto ha seguito il Festival del Cinema di Locarno per noi; pubblichiamo le sue cronache in quattro puntate, ecco la prima.

Una premessa:difendere Locarno dal pensiero unico.

 Si è concluso da qualche giorno il 67° Festival del film di Locarno. Da sempre un’occasione per verificare cosa “bolle in pentola” nelle produzioni cinematografiche ufficiali al di fuori dei colossal hollywoodiani.

Infatti l’appuntamento nella cittadina svizzera mantiene ancora una propria specificità in grado di stimolare riflessioni personali, e universali sul mondo e sulla vita di tutti noi.

Riflessioni che ultimamente hanno trovato spazio soprattutto in alcune sezioni del Festival come “Open Doors” quest’anno dedicata all’Africa Subsahariana, e nella “Settima della critica” che in genere ospita film e documentari d’inchiesta su temi d’attualità: ad esempio nel recente passato diverse pellicole avevano affrontato il tema della finanza speculativa.

Ma seguendo una tendenza già presente da tempo, come ho avuto modo di spiegare in altre occasioni, anche quest’anno il processo di omologazione sembra aver  purtroppo compiuto qualche ulteriore passo in avanti. Emerge l’aspirazione a rincorrere Venezia e Cannes piuttosto che a salvaguardare le caratteristiche da sempre patrimonio di questo festival.

Un percorso che appare perdente, da qualunque punto lo si guardi.

Locarno non potrà mai competere con i grandi festival europei per investimenti ed anche per collocazione temporale, in agosto, a poche settimane dal festival veneziano ….

Questa consapevolezza ha alimentato il tentativo  di colmare il gap da un lato, in particolare sotto la direzione artistica di Olivier Père, moltiplicando premi ed inviti ad attori e registi, rincorrendo vecchie e nuove star; dall’altro fornendo l’estro allo sviluppo di polemiche spesso prive  di ogni reale contenuto, destinate ad esaurirsi in un bicchiere d’acqua nel giro di un paio di giorni.

Sono convinto che una maggior apertura ai temi sociali e politici, che da sempre hanno caratterizzato  questo evento, valorizzerebbe ulteriormente il festival; fino a qualche anno fa, gli incontri con i registi e gli attori si trasformavano in momenti di crescita collettiva, in dibattiti che spaziavano dal cinema al confronto sulle idee e sui contenuti.

A questo proposito va riconosciuto che, al di là delle scelte compiute dalla direzione del  festival di Locarno, è il cinema stesso che sembra essere tornato indietro, privilegiando una visione puramente estetica e formale.

Anche quest’anno non sono comunque mancati film di valore, in grado di suscitare riflessioni, proporre ragionamenti ed anche divertire.

 

Il Pardo d’oro

 

Tra questi certamente merita la prima menzione Mula Sa Kung ano ang noon (From What is Before), il film del regista filippino Lay Diaz che ha vinto il Pardo d’oro.  Una pellicola non commerciale, se non altro per la durate di 5 ore e 38 minuti che ne renderà più che complessa la circolazione nei circuiti ufficiali.

L’inizio appare come un film d’epoca.

La scena si svolge in un remoto villaggio delle  Filippine nel 1972, durante il governo militare di Ferdinand Marcos. Un bambino trovatello, due sorelle orfane di cui una sofferente di una grave invalidità mentale, un vinaio, una furba venditrice  e un emigrato di ritorno sono i primi protagonisti di questa epopea. La telecamera riprende le scene con tempi che appaiono quasi reali: la figura che appare sulla collina, il suo lento incedere verso il villaggio, ripreso passo dopo passo.

Lo spettatore che sceglie di non abbandonare la sala per rincorrere ritmi differenti, viene pian piano trascinato dentro la scena, coinvolto nella vita quotidiana di questa comunità, dove colonizzazione cristiana e riti magici disputano ancora la loro partita attorno ad una roccia sacra esposta alle tempeste del mare.

Il regista  ci conduce per mano a ricercare le origini del suo popolo, sopravvissuto a  domini stranieri; l’obiettivo, come esplicitato nel titolo, è individuare ciò che è stato,  per poter da lì, da quella storia “locale”  raccogliere  valori, messaggi e promesse future in grado di rivolgersi alla dimensione universale, “globale”, contenuta nella storia di ogni popolo.

 

Eroi e demoni nel tempo della crisi

 

Durak (il pazzo). Una tubatura dell’acqua esplode di notte in un dormitorio di una piccola città russa. Dima, è un semplice idraulico che sta studiando ingegneria industriale, ma ben presto si rende conto che le conseguenze di quel guasto mettono a rischio la vita dei settecento abitanti del palazzo, in gran parte alcolizzati, emarginati e anziani. E’ necessaria un’immediata evacuazione.

Ma le preoccupazioni di Dima s’infrangono, durante un’interminabile odissea notturna, contro l’indifferenza di un intero sistema politico e istituzionale, svelandone la profondità e la ramificazione della corruzione. Essere buoni ed altruisti non sempre aiuta, anzi onestà sembra far rima con povertà.

Dima si salva dalla vendetta del potere ma soccombe alla furia, prodotta dall’ignoranza, degli inquilini che voleva tutelare.

Durak, del regista russo Yuri Bykov,consuma il suo eroe buono – interpretato da Artem Bystrov, premiato con il Pardo per la miglior interpretazione maschile – in una tragedia dove il coro decreta la morte del suo solista.

Un film ben costruito, appassionante, che evidenzia la crisi economica e sociale, aggravata dall’assenza di alcun riferimento etico-valoriale,  nella Russia post-sovietica, dove il dio denaro appare come l’unico obiettivo per la nuova nomenclatura.

A questa decadenza da nuovo impero, nel deserto sociale, si oppone solo una consapevolezza e un’ostinazione individuale depositaria degli antichi valori della solidarietà e della giustizia.

Valori che nella loro universalità si elevano oltre gli stessi legami di sangue: “lascia stare – lo supplica la moglie all’apice della tragedia – tuo figlio ed io siamo la tua famiglia è a noi che tu devi pensare..” “la dentro ci sono centinaia di persone che rischiano la vita – replica duro Dima – è di loro che devo ora prendermi cura…”.

Ma saranno proprio i “suoi”, emarginati di ogni specie, privi di qualunque coscienza di sé, a decretarne la fine.

A Blast (una favola). Maria, donna quarantenne della middle class, madre premurosa e moglie affettuosa, si trova improvvisamente a dover fronteggiare la crisi economica che attanaglia tutta la Grecia e che ora minaccia direttamente il futuro della sua famiglia. E’ sola, non c’è traccia di alcuna risposta/soluzione collettiva; di fronte al timore di perdere la sicurezza sociale della propria famiglia,calpesta i valori morali della sua esistenza e distrugge i propri ideali.

In A Blast il regista Syllas Tzoumerkas dentro una narrazione avvincente e una recitazione più che convincente, non offre alcuna via d’uscita; c’è solo la fuga e la trasformazione antropologica dell’eroe nel suo opposto. Solo l’illegalità, il comportamento delittuoso, può, forse, ma nemmeno di questo c’è la certezza, permettere l’affrancamento dall’incombente povertà.

 

Alive. Jungchul lavora in una fabbrica di pasta di soia, ma i soldi non bastano, la vita è dura soprattutto quando si deve badare anche alla sorella affetta da una malattia mentale e alla piccola nipotina. Non resta che emigrare, lasciare la Corea del Sud per raggiungere le Filippine, dove trovare finalmente una sicurezza economica. Ma una situazione imprevista condurrà alla perdita del lavoro e ad un lungo percorso nel quale povertà, malattia mentale e crisi economica si alimenteranno a vicenda in una spirale che pare non conoscere soluzione.

Il regista Park Jungbum offre, in Alive, uno spaccato estremamente verosimile delle mille possibili traversie umane attraverso un’interessante excursus sulla vita nelle campagne coreane.

Con delicatezza, ma senza sfuggire alla durezza della realtà, mostra quanto la miseria è in grado di produrre: guerra tra poveri, rottura della solidarietà tra lavoratori, corsa a compiacere il padrone…

Anche qui la ricerca di una soluzione passa sempre e comunque attraverso un percorso personale, tutt’al più famigliare.

Nel mondo odierno, segnato ad ogni livello della scala sociale dal mito della produttività, appare difficile per chiunque trovare un posto. Per chi è affetto da un disturbo psichico se va bene possono solo aprirsi le porte di qualche ospedale,non certo quelle di un percorso d’inserimento sociale e lavorativo.

 

Viktoria. La soluzione attraverso la quale la giovane rom Viktoria cerca di sottrarsi ad un’esistenza di pura sopravvivenza e di ristrettezze economiche  non è certo originale; lascia Budapest per finire sui marciapiedi dell’opulenta Zurigo ad attendere i clienti sotto lo stretto e violento controllo del proprio magnaccia.

Il regista svizzero Men Lareida riattraversa tutti i luoghi comuni di ogni narrazione sulla prostituzione, sfiora ma non indaga, la legislazione svizzera che autorizza il più antico mestiere del mondo ma che, stando al film, non sembrerebbe in grado di evitare il dilagare dello sfruttamento e della tratta delle donne.

Un’occasione persa per un film che fin dall’inizio appare scontato nel racconto di situazioni già ampiamente conosciute e più volte raccontate.

 

Non c’è dubbio che la crisi economica sia stata tra i protagonisti dei film di Locarno compresi quelli del concorso internazionale e probabilmente non poteva essere altrimenti. Le lenti attraverso le quali la crisi è stata affrontata sono invariabilmente quelle che raccontano storie individuali ed anche questo può essere ovvio quando ci si riferisce a pellicole narrative e non a documentari.

Meno scontati sono forse altri due aspetti che caratterizzano, seppure ognuno con la propria specificità, tutte e quattro le pellicole fin qui trattate.

La soluzione è sempre individuale, non c’è traccia di alcun soggetto collettivo che possa indicare un cambiamento possibile, né di alcuna via d’uscita da percorrere insieme: attorno c’è solo solitudine e deserto. Non solo. La via d’uscita possibile passa attraverso l’azzeramento degli ideali, l’assunzione di comportamenti prima rifiutati, fino ad arrivare alla realizzazione di veri e propri reati come avviene in “A Blast”.

Ogni altro percorso, anche individuale, è destinato a fallire come appare in “Durak” dove risulta ancor più evidente l’assenza di una capacità rivendicativa collettiva. In questo film va in scena la disperazione e l’ignoranza sociale di un sottoproletariato affamato e abbruttito; per dirla con termini che forse possono apparire desueti – ma che in questo caso ben sintetizzano la situazione rappresentata – non c’è traccia di alcuna coscienza di classe.

Il cinema è il prodotto della società nella quale viviamo e tutti conosciamo la difficoltà, anche solo nel costruire delle alternative con il pensiero; ma è pur vero che anche nella società odierna vi sono, e non solo in Grecia, spazi di resistenza e di organizzazione che i registi e i produttori, almeno qui a Locarno, non sembrano aver colto.