Benché anche gli economisti di incrollabile fede neoliberista ammettano che la crisi è provocata da una mortificazione dei salari, l’istinto predatorio d’impresa continua a prevalere e anche Nestlé ha emesso il suo ruggito. Pretende di riorganizzare il lavoro nelle tre fabbriche di Perugia, Parma e Ferentino trasformando centinaia di contratti a tempo pieno e indeterminato in altrettante forme contrattuali più penalizzanti. Un’operazione immediatamente battezzata Job’s act e subito respinto al mittente da parte di tutto il sindacato dell’arco confederale.

A dispetto della tanto decantata campagna assunzione giovani, battezzata “Nestlè Needs YOUth”, il sindacato denuncia un profondo ridimensionamento produttivo e occupazionale di Nestlé in Italia. Tutto porta a pensare che Nestlé abbia intenzione di trasferire alcune attività produttive in Francia, forse attratta dalle agevolazioni che Hollande ha promesso alle multinazionali che si insediano in casa sua. Ecco un altro frutto amaro della politica che invece di usare il proprio potere per definire un quadro normativo dentro il quale le imprese devono operare nel rispetto del lavoro, della sicurezza sociale e dell’ambiente, si adegua ai loro ricatti e tira i diritti sempre più giù per invogliare le multinazionale a investire in casa propria. Una politica che in Italia trova la sua espressione nel Job’s act imposto da Renzi e che a livello europeo trova conferma nelle dichiarazioni di fede nel libero mercato che affollano i trattati. Non a caso varie sentenze della Corte di giustizia europea hanno sancito il primato del mercato e della concorrenza sul diritto sociale.

Una linea politica rafforzata dal TTIP, il trattato di libero scambio che Unione Europea sta contrattando con gli  Stati Uniti. Come sempre, i negoziati vengono tenuti segreti all’opinione pubblica, mentre vi sono direttamente coinvolti oltre 600 rappresentanti delle multinazionali. Obiettivo: costituire la più grande zona di libero scambio sull’intero pianeta, capace di coprire il 60% del Pil mondiale. La Commissione Europea ha spiegato che l’ostacolo più serio al commercio e agli investimenti, non risiede nei dazi doganali, ma nelle cosiddette ‘barriere non tariffarie.’ Ed è su questi aspetti che l’accordo si concentra. L’obiettivo è rendere “compatibili” le diverse normative tra Usa e Ue che regolano i diversi settori dell’economia con l’unico scopo di rendere più libere le attività delle imprese in termini di movimento di capitali, merci e lavoro. Sarà così possibile per le aziende statunitensi chiedere il drastico abbassamento degli standard europei in materia di diritti del lavoro o mettere in sordina il “principio di precauzione”, cardine dell’Ue in materia ambientale. Contemporaneamente, le aziende europee puntano ad una modifica delle severe normative Usa sui medicinali, e ad un allentamento del più stretto regime di regolamentazione finanziaria. Scrive Attac: “Usa e Ue vogliono in sostanza spacciare per “uscita dalla crisi” il nuovo tentativo di realizzare l’utopia delle multinazionali, ovvero un mondo in cui diritti, beni comuni e democrazia siano considerate null’altro che variabili dipendenti dai profitti.”

L’unico modo per arrestare questa strada verso la barbarie è l’affermazione di una nuova maggioranza in Europa, finalmente capace di dire un grande vaffa alle logiche della competizione dentro cui sta la stessa proposta di uscita dall’euro. Un grande no alla competizione globale e un grande sì alla solidarietà globale cominciando a costruire in tutta Europa una linea Maginot dei diritti, della sicurezza sociale, del salario dignitoso, che nessuna impresa possa oltrepassare.