Reportage all’Aquila a 5 anni dal terremoto

L’Aquila non trova pace. Nè fondi per ricostruirsi. O forse sì. Perchè è di pochi giorni fa la notizia di un possibile impegno da parte del governo di destinare ulteriori risorse alla ricostruzione del capoluogo abruzzese. In particolare si tratterebbe di 180 milioni aggiuntivi di fondi Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica), fuori dunque dalla Legge di Stabilità. Soldi con cui si andrebbe avanti fino a giugno, ma che non basterebbero a coprire tutto il 2014: si stima infatti una somma necessaria di 700 milioni di euro. Soldi, soldi e ancora soldi. Attorno ai quali, da quel tragico 6 aprile di cinque anni fa, sono nati scandali, tangenti ed inchieste, specchio di una penisola pregna di immoralità ed indecenza. Testo e fotografie di Massimo Nardi.

Alle ore 3.32 del 6 Aprile 2009, una scossa di magnitudo 6.3 provocò la morte di 309 persone e il ferimento di altre 1.600. Gli sfollati furono circa 70.000. Di questi, una metà fu accolta nelle tendopoli e l’altra in hotel e case private. Gli edifici pubblici danneggiati furono 1.020, quelli culturali 1.842 e quelli privati 34.000. Una catastrofe. Umana e materiale.

 

Oggi, dopo 5 lunghi anni, la città dell’Aquila non è ancora rinata. È vero, ci sono attività commerciali che sono rifiorite e che, fortunatamente, creano di nuovo un po’ di vita quotidiana nel centro storico. E’ vero, ci sono cantieri finalmente terminati. Ma sono mosche bianche in un deserto abbandonato. Le fotografie raccontano gli istanti di vita. E mai, come in questo reportage, è sembrato di scattare fotografie già vecchie, ferme di cinque lunghi anni. Tutti gli edifici danneggiati, la quasi totalità, sono sostenuti da impalcature di consolidamento, non di ricostruzione. I lavori sono fermi al 2010, esattamente un anno dopo il disastroso terremoto. E’ solo un moltiplicarsi di domande e di mancate risposte. E, in mezzo alla disperazione di chi ha perso tutto nel giro di pochissimi secondi, gli sciacalli hanno cominciato a sguazzare imperterriti nel cratere abruzzese. In questi 5 anni, sono ben venti le inchieste giudiziarie nate grazie alla magistratura, che ha cominciato ad indagare sul giro di appalti e mazzette nel capoluogo aquilano. Ultima delle quali è quella denominata “Do ut des”: un giro di 500.000 euro di tangenti che ha portato all’arresto di 4 persone e alle (provvisorie) dimissioni del sindaco Cialente, immediatamente ritirate pochi giorni dopo. Do ut des, paghi affinchè tu possa lavorare. Era il verbo dei funzionari pubblici nei confronti degli imprenditori per poter aggiudicarsi gli appalti. Nell’inchiesta emerge, tra le altre cose, l’uso di un numero eccessivo di giunti e tubi innocenti per la puntellatura dei palazzi al fine di massimizzare il guadagno. Tubi che in alcuni casi neanche toccano i muri, quindi inutili al sostegno e al mantenimento dell’edificio devastato. Uno sperpero di soldi, sottratti alla ricostruzione. Ma, in questo caso, oltre al danno c’è anche la beffa: la manutenzione e la futura rimozione delle impalcature spettano al Comune, con un conseguente aggravio dei costi.

Ma le sorti del capoluogo abruzzese hanno toccato anche l’Europa. Il parlamentare danese Soren Bo Sondergaard, membro della Commissione Controllo Bilancio del Parlamento Europeo, stilò nel giugno del 2013 una relazione, in cui accusava il governo italiano di aver speso 350 dei 500 milioni dei fondi europei destinati all’emergenza per la costruzione del Progetto C.A.S.E., ovvero le famose New Town che l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi inaugurò in diretta televisiva alla presenza del fido Bruno Vespa. A seguito di quel rapporto, la Corte dei Conti Europea accertò che effettivamente gran parte dei soldi vennero utilizzati per gli alloggi permanenti (appunto le New Town) anziché per quelli temporanei (Moduli Abitativi Provvisori), con la conseguenza, negativa, di aiutare solo 15.000 sfollati su 70.000. Anche qui un’altra beffa: il costo di quelle case è stato esageratamente alto, circa il 158% in più rispetto ai prezzi di mercato. Un progetto complessivo da 800 milioni di euro che, però, nonostante il costo, si sta rivelando un castello di sabbia. Anche qui c’è un’altra inchiesta da parte della magistratura italiana: 200 di quei famosi isolatori sismici (ma alcuni parlano anche di 600-700), ovvero quelle grandi colonne su cui si reggono i nuovi edifici e che rappresentavano la garanzia di stabilità contro eventuali nuovi terremoti, risulterebbero essere difettosi.

Nel 2009 infatti erano una novità industriale e, per la fretta del governo, furono impiantati ancor prima di essere omologati. Non solo. I materiali usati furono diversi da quelli previsti dal capitolato di gara: fu utilizzata, per esempio, una minor quantità di acciaio nella costruzione di questi isolatori rispetto alle vigenti normative (uno spessore di 2mm contro i 2,5 previsti). Con costi minori quindi. E con un più rapido deterioramento della struttura. Infatti oggi le attuali condizioni dei nuovi palazzi sono precarie. Si scoprono così molti difetti: infiltrazioni di acqua, riscaldamenti rotti, cedimenti di intonaci, coibentazioni irregolari, mancato isolamento termico, smottamenti di terreni, mancato fissaggio delle assi di legno dei balconi…Una serie di lacune ed irregolarità che hanno reso di fatto già vecchi molti di quei nuovi palazzi o addirittura, come nel caso dei MAP, inagibili e, per questo, subito sequestrati dalla magistratura.

Un totale quindi di venti inchieste giudiziarie per ingabbiare gli sciacalli. E per sentenziare che all’Aquila tutto è fermo.

Un mazzo di chiavi all’interno di un’agenzia immobiliare racconta il mercato delle case di allora: il locale a Piazza Duomo o l’appartamento a Coppito o in via Nazionale o a via Fortebraccio.

Cinque manichini femminili, nudi, ancora con le acconciature ben fatte, che ti guardano fissi negli occhi, quasi pregandoti di portarli via da lì. Perchè il loro compito è terminato.

Case abbandonate, con la porta aperta. Tante. Una, in particolare, abitata solo da travi di legno che la sorreggono, con un cesto di vimini e due bottiglie di rosso sul lavandino a far da guardiani. Mentre una scala ti invita su, al primo piano, a vedere com’era e ad immaginare chi c’era.

Case abbandonate, con la porta incatenata. Tante. A proteggersi dagli sciacalli. Appunto.

E le impalcature, così lucenti, geometriche, di colori diversi a seconda della ditta di costruzioni. Che poco lasciano intravedere della bellezza artistica dei monumenti aquilani. Che si nascondono, quasi timidamente, per non far vedere le proprie ferite, così profonde, difficili da lenire.

E gli alpini. Giovanissimi. A guardia delle zone rosse. E non solo. Assieme a qualche pattuglia della Protezione Civile.

E le splendide strade di sampietrini, rese strette e buie dai ponteggi che, come fossero braccia, ti sfiorano e ti accarezzano mentre le percorri.

E le torri e i campanili sofferenti, sorretti da collari di legno, vittime di una prognosi difficile da sciogliere.

E poi, loro, gli anziani, quei pochi rimasti, quelli che non hanno accettato le New Town, ma che invece oltrepassano silenziosamente e fieramente la zona rossa. La quale, ovunque si trovi, è questione nazionale. Ma qui no, di nazionale non c’è niente. C’è solo la grinta abruzzese di chi non vuole mollare un centimetro del proprio passato. Perchè, e loro lo sanno, non bisogna accettare sogni dagli sconosciuti. «Qui all’Aquila – afferma Giustino Parisse, il giornalista de Il Centro, che perse due figli ed il padre ad Onna- si sono dimenticati dei 309 morti. Non abbiamo nemmeno un luogo per piangerli, perchè il cimitero monumentale non è stato restaurato. E invece bisogna pensare a loro, anche quando si ricostruisce, per costruire case sicure. Devi pensare ai morti quando chiedi i soldi, così chiedi il giusto. E all’aquilano che vuole fare cose illegali, do solo un consiglio: si fermi un minuto davanti alla Casa dello Studente. Un minuto soltanto».
di Massimo Nardi