Il suo libro parla delle imprese argentine autogestite dai lavoratori dopo la grave crisi del 2001. Quali sono a suo avviso gli elementi più interessanti e significativi di questa esperienza?

Sì, il libro in realtà offre una serie di interviste agli stessi lavoratori che occuparono le loro fabbriche per mantenere i posti di lavoro durante e subito dopo la crisi. Tra gli elementi più interessanti ci sono sicuramente il coraggio e la forza di volontà dimostrata da questi lavoratori. Non avevano altre possibilità e questa era per loro l’unica via di uscita. Stiamo parlando di persone abituate a svolgere lavori manuali nella linea di produzione, ma che per necessità si sono formate e sono riuscite a gestire tutti gli aspetti di un’impresa, dall’amministrazione, alla commercializzazione dei prodotti, e questo raccontano.

Non è stato facile ed è stato possibile grazie alla rete che si è creata tra gli stessi lavoratori che vivevano situazioni simili, ma oggi è il più grande motivo di orgoglio: dimostrare che i lavoratori possono anche gestire un’impresa. Altro elemento fondamentale, senza il quale probabilmente non si sarebbe giunti a questo risultato, è la solidarietà dimostrata dagli argentini, non solo da quelli direttamente colpiti dalla crisi, ma anche da chi aveva capito che ci si doveva salvare tutti insieme. Gli argentini hanno legittimato e sostenuto le lotte di questi lavoratori e questo ha fatto sì che i governi che si sono succeduti in questi anni trovassero delle soluzioni e smettessero di reprimere il fenomeno con gli sgomberi e le violenze.

Per scrivere il libro ha intervistato i protagonisti dell’auto-gestione argentina.  Può raccontarci qualche aneddoto che l’ha colpita particolarmente?

Uno riguarda proprio la solidarietà dimostrata a questi lavoratori. Quando sono stata alla Grafica Chilavert  di Buenos Aires, mi hanno raccontato che hanno dovuto occupare la fabbrica per evitare che il proprietario si portasse via i macchinari illegalmente; in questo caso loro non avrebbero più potuto lavorare. Durante i giorni dell’occupazione dovevano consegnare un lavoro a un cliente, una serie di libri appena stampati, ma fuori c’erano le forze dell’ordine pronte a farli sgomberare; non potevano consegnare questi libri perché la polizia non permetteva che entrassero né che uscissero i materiali. Così il vicino propose di fare un buco nel muro che separava la fabbrica dalla sua casa, in modo da far passare i libri da casa sua e consegnare così il lavoro in tempo. I lavoratori si resero conto che questa poteva essere l’unica soluzione per non perdere la fiducia del cliente e così fecero. Questo buco ora è stato riparato, ma in modo che rimanessero ancora i segni di questo gesto di solidarietà. Quando sono stata lì per l’intervista è stata una delle prima cose che mi hanno mostrato con orgoglio e un po’ di commozione.

Ritiene che l’esperienza delle “imprese recuperate” possa ispirare esperimenti simili in un’Europa che in questo momento sta affrontando una crisi paragonabile a quella argentina del 2001?

Penso che se in Argentina hanno dimostrato che è stato possibile – con tutti i distinguo e le differenze tra paesi, situazioni economiche e contesti storici – forse questo fenomeno merita una riflessione attenta anche qui in Europa. Ci sono alcune situazioni molto simili a quelle descritte dai lavoratori argentini che credo possano avere successo, soprattutto quando si tratta di aziende che chiudono per delocalizzare, non perché i prodotti non hanno più mercato.

Chiaro che ogni situazione merita un’analisi a sé, però soprattutto in questo periodo di crisi dalla quale ancora non si vede una via d’uscita questo potrebbe essere un esempio da imitare. In Italia ci sono già alcune esperienze interessanti di lavoratori che stanno provando a seguire questa strada, ma si tratta di casi ancora isolati; la politica e le istituzioni in generale dovrebbero guardare con attenzione a questo fenomeno e agevolare questo percorso.

Elvira Corona.

Lavorare senza padroni. Viaggio nelle imprese “recuperadas” d’Argentina

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