Dopo tre anni in prigione in attesa di processo, il candidato al Premio Nobel per la Pace Bradley Manning ha affrontato la prima settimana di corte marziale. Dal 1° all’8 giugno si sono svolte nel mondo una quarantina di manifestazioni di solidarietà, la più grande delle quali ha avuto luogo a Ford Meade, dove si tiene il processo.

Il primo giorno la difesa e l’accusa si sono affrontate con dichiarazioni d’apertura basate sulla stessa domanda: “Cosa faresti, se avessi accesso a prove sulla vera natura di una guerra, con assassini di civili, torture illegali, segreti inutili e migliaia di documenti che rivelano la corruzione governativa? Cosa faresti se i rapporti fatti ai superiori venissero ignorati e se sapessi che si è mentito al popolo americano?”

L’avvocato difensore David Coombs ha sottolineato il fatto che Bradley Manning non è il tipico soldato, ma un militare coscienzioso, che teneva alle persone, ai compagni e ai civili iracheni. Un umanista, come aveva fatto scrivere sulla medaglietta di riconoscimento nello spazio riservato all’orientamento religioso. Le morti terribili dei civili e dei commilitoni lo hanno sconvolto e ispirato, spingendolo a cercare la verità riguardo alla guerra. Una guerra che, come oggi sappiamo anche grazie a Bradley e a WikiLeaks, era basata sulle bugie.

Il secondo giorno del processo l’hacker e informatore Adrian Lamo, che nel 2010 denunciò Bradley alle autorità, ha confermato le sue motivazioni di coscienza. Il resto del secondo e del terzo giorno è stato dedicato all’addestramento di Bradley. Vari testimoni hanno dichiarato che svolgeva bene i suoi compiti e veniva lodato per l’organizzazione e la competenza informatica. Una prima accusa sostiene che non era autorizzato ad avere accesso alle informazioni, almeno nel modo in cui questo è accaduto, una seconda che ha violato i regolamenti trasferendo queste informazioni da computer sicuri ad altri non sicuri e a mass-media. L’ultima accusa, l’unica da lui ammessa, riguarda il passaggio delle informazioni a WikiLeaks. Secondo i testimoni Manning aveva invece un accesso autorizzato a tutta l’informazione. Era inoltre normale che ulteriori programmi e file non autorizzati venissero installati su computer sicuri.

I mass-media hanno dato ampio spazio al processo. Il commento più interessante viene dalla rivista Rolling Stone, secondo cui “dovremmo chiederci se come popolo approviamo gli atti scoperti da Manning e commessi in nostro nome.”